Scheda film

Regia: Lone Scherfig
Soggetto e sceneggiatura: Laura Wade
Fotografia: Sebastian Blenkov
Montaggio: Jake Roberts
Scenografia: Alice Normington
Costumi: Steven Noble
Musiche: Kasper Winding

G.B., 2014 – Drammatico – Durata: 106’
Cast: Max Irons, Sam Claflin, Douglas Booth, Holliday Grainger
Uscita: 25 settembre 2014
Distribuzione: Notorious Pictures

 L’ultima cena

Dieci studenti dell’Università di Oxford, ricchi, cinici e viziati, vengono ammessi all’esclusivo e antico Riot Club, fondato nel lontano 1776. I giovani aspirano a standard di vita elevati e vogliono lasciare un segno all’interno del club. Ma una sera, complice l’alcol, un evento tragico rischia di rovinare le loro reputazioni. I giovani hanno due scelte: rimanere in silenzio senza compromettere il loro futuro, oppure accusare il club degli avvenimenti rischiando di essere estromessi dal facoltoso circolo per sempre.
Basta scorrere con gli occhi queste poche righe che compongono la sinossi di Posh (titolo scelto dalla Notorious Pictures per portare nelle sale nostrane a partire dal 25 settembre The Riot Club) per essere immediatamente assaliti da quella inconfondibile sensazione di dejà vu che solo il già visto e sentito sono soliti lasciare sul palato dello spettatore. Una sensazione, questa, destinata a perdurare anche dopo il termine dei titoli di coda, simile per certi versi al sapore di una minestra riscaldata servita per l’ennesima volta. Va detto, però, che quel fastidioso gusto viene dalla scarsa originalità del plot, già presente nella matrice originale, che se a teatro riesce a passare quasi inosservata, al contrario, in un mezzo di fruizione popolare come il cinema, difficilmente può accadere viste le non poche assonanze con film del passato più o meno recente, a cominciare da Bling Ring, per finire con Le regole dell’attrazione o The Skulls. Ed è proprio con quest’ultimi che Posh condivide le tante croci e le poche delizie. Di fatto, se si esclude la nazione e le Università nelle quali si sviluppano i rispettivi eventi, con le pellicole di Roger Avary e Rob Cohen ambientate negli Stati Uniti (Camden College e New Haven) mentre quella della Scherfig nel Regno Unito (Oxford), la sostanza non cambia. Tutti e tre si sforzano di rendere il disperato caos di questa gioventù bruciata a colpi di sniffate, sesso, riti iniziatici, lusso sfrenato, denaro e sbornie. Tutte e tre sono storie di delitti e castighi, di scelte, colpe e redenzioni, nelle quali nessuno è innocente, con studenti benestanti della middle class che si sentono intoccabili, protetti e sorvegliati dalle società segrete e dalle confraternite delle quali sono fedeli adepti. Si tratta di somiglianze e caratteri comuni (i personaggi sembrano disegnati con la carta carbone) che rendono il racconto piuttosto prevedibile e di conseguenza privo di interesse.
Ma la cosa che lascia veramente l’amaro in bocca, al di là dell’esito complessivo dell’operazione che come vedremo non raggiungerà a nostro avviso neppure una risicata sufficienza, è il fatto che a servici la minestra riscaldata sul grande schermo sia la pluri-decorata Lone Scherfig, regista di perle come Italiano per principianti, ma soprattutto di An Education e One Day. La cineasta danese, balzata alle cronache per essere stata la prima donna ad aver scritto e diretto un film griffato “Dogma 95”, mette la propria firma su un’opera che non regge il passo dell’omonima piéce teatrale del 2010 di Laura Wade, della quale è l’adattamento. Pur conservandone l’anima e l’impianto drammaturgico, il risultato sembra non riuscire a sopportare il passaggio dal palcoscenico alla sala e la causa va ricercata in primis nella difficoltà della Wade stessa di imprimere sul copione cinematografico la tensione e la carica empatica con le quali, quattro anni prima, aveva costruito quello teatrale. A mostrare le crepe più evidenti, infatti, è senza alcun dubbio la sceneggiatura, che ha nella macro-sequenza della cena dei membri del Riot Club (versione fittizia del reale Bullingdon Club di Oxford) un motore portante che funziona a fasi alterne: se da una parte riesce ad accumulare suspense e a creare un crescente senso di disagio nel fruitore, dall’altra la spolverata di morale a buon mercato con la quale l’autrice riveste le fasi salienti finisce con il vanificare quanto di buono la scrittura era stata in grado di presentare. Una costante, quella della mancanza di continuità, che influisce negativamente anche sul processo di trasposizione, con una Scherfig che fa quello che può dietro la macchina da presa e nella direzione degli attori. Peccato che quel poco non è sufficiente a risollevare le sorti del suo settimo film.

Voto: 5

Francesco Del Grosso