Scheda film
Titolo originale: Birdman or (The unexpected virtue of ignorance)
Regia: Alejandro González Iñárritu

Sceneggiatura: Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone,
Alexander Dinelaris, Armando Bo
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Douglas Crise
Scenografia: Kevin Thompson
Costumi: Albert Wolsky
Musiche: Antonio Sanchez
Usa, 2014 – Commedia – Durata: 119’
Cast: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Emma Stone,
Edward Norton, Naomi Watts
Uscita: 5 febbraio 2015
Distribuzione: 20th Century Fox

Sul viale del ritorno
In attesa di vedere quante e quali delle nove candidature si tramuteranno in statuette alla prossima notte degli Oscar, fissata per il 22 febbraio, Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) di Alejandro González Iñárritu si consola – per così dire – portandosi a casa due (su sette nomination complessive) Golden Globe per la sceneggiatura e l’interpretazione maschile nella categoria commedia-musical. La pellicola del regista messicano approda finalmente sugli schermi nostrani dopo aver aperto la 71ª Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia lo scorso 27 agosto e lo fa grazie alla 20th Century Fox che, in cuor suo, spera in un esito positivo come quello ottenuto da Gravity del connazionale Alfonso Cuarón nella passata stagione, così da allungare il più possibile la permanenza del film nelle sale italiane.

Per quanto ci riguarda, l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Iñárritu ha raccolto già abbastanza, forse di più di quanto realmente meritasse. Uno o più Oscar conquistati non farebbero gridare allo scandalo, a patto che rientrino in una manciata di categorie, ma esclusivamente di natura tecnica. A parte la sontuosa prova di un redivivo Michael Keaton, ben supportata da spalle di livello come Norton, Galifianakis, Watts e Stone, infatti, i meriti dell’opera vanno rintracciati nella confezione estetico-formale più che nella componente drammaturgica. Quest’ultima appare discontinua, ridondante e depotenzializzata da una serie di elementi che vanificano la brillantezza dei dialoghi al vetriolo e lo humour politicamente scorretto di alcune sequenze. L’originalità cede ben presto il testimone allo show del già visto, appesantito a lungo andare da situazioni che si ripetono in modalità random e non aggiungono nulla a una narrazione sulla cui timeline spiccano almeno una trentina di minuti di troppo. Di conseguenza, ci si trova al cospetto di un racconto ecessivamente dilatato, ben oltre le sue effettive necessità drammaturgiche, che risorge solo grazie agli assolo del protagonista e a qualche spassoso duetto con Norton, oppure alle pennellate surreali e pseudo fantascientifiche che piombano sul grande schermo.

Di attori, artisti o sportivi sul viale del tramonto in certa di ispirazione o riscatto professionale, incapaci di scrollarsi di dosso un’etichetta o un personaggio/opera che li ha resi celbri, la Settima Arte se n’è occupata un’infinità di volte: da Actors di Conor McPherson a La città della tigre di Alan Shapiro, da La diva di Stuart Heisler a Due settimane in un’altra città di Vincente Minnelli, passando per È nata una stella di William A. Wellman. E la lista di titoli non finisce di certo qui. Per questo il Riggan Thomson interpretato da Keaton, conosciuto per aver vestito i panni di un famoso supereroe di nome Birdman, che lotta per portare in scena uno spettacolo a Broadway, non aggiunge nulla di rilevante alla portata principale, alla pari del tema del doppio e della conseguente lotta celebrale che l’attore combatte con il suo alter ego, ossia i personaggio del supereroe che lo ha reso celebre. E anche qui, l’elenco di figure analoghe alle prese con lotte intestine più o meno cruente è piuttosto ricco, con il Tyler Durden di Fight Club a guidare le fila. Il tutto mentre cerca con tutte le forze di riconciliarsi con la famiglia e con se stesso, un po’ come ha tentato di fare nel suo campo il protagonista di The Wrestler. Tutto ciò contribuisce di fatto alla sensazione di trovarsi di fronte a una sceneggiatura costruita come un puzzle, prendendo in prestito qua e là tasselli che appartengono a un “universo drammaturgico” già ampiamente esplorato.

Sullo sfondo troviamo un attacco critico non particolarmente convincente al mondo dello spettacolo, alle sue spietate regole e a coloro che ne muovono i fili, con Riggan Thomson nelle vesti della marionetta di turno. Significativo quanto riuscito, al contrario, il fatto che a interpretare il protagonista sia stato chiamato Keaton, ripescato dal cineasta messicano dall’oblio della dimenticanza come Aronofsky ha fatto a suo tempo con Mickey Rourke. Keaton idealmente se la deve vedere con un passato che lo ha visto calarsi per ben due volte nei panni di Batman, con il personaggio di Birdman che può essere letto come una sorta di estensione citazionistica. Gioco di rimandi più o meno espliciti che prosegue con Emma Stone, qui figlia ex tossicodipendente di nuovo al fianco di un supereroe dopo Spiderman, oppure Norton ancora in un film sul tema del doppio (il già citato Fight Club), per finire con Naomi Watts che interpreta come nel King Kong di Peter Jackson la parte di un’attrice di seconda fascia in cerca di una possibilità per emergere. Come già detto, è proprio il cast il valore aggiunto dell’opera, così come la confezione tecnica, quest’ultima figlia di virtuosismi ed evoluzioni della macchina da presa, lanciata in una successione di spericolati piani sequenza, ma anche di un montaggio, di effetti visivi e di una fotografia, di grande efficacia.

Tutto questo però non basta a nostro avviso a far spiccare il volo a Birdman or, un film lontano anni luce dalle corde toccate in passato da Iñárritu, coraggioso nel cambiare strada, bravo a tenere le redini tecniche e a dirigire gli attori, ma incapace di percorrere sino alla fine le vie di un genere che non conosce, ossia la Dramedy, e di gestire i toni, i registri e le sfumature, che lo caratterizzano. In tal senso, il regista messicano sembra volersi calare anche lui nei panni di Thomson, quasi per scrollarsi di dosso una certa etichetta. Il poker precedente (Amores perros, 21 Grammi, Babel e Biutiful) lo aveva visto alle prese con storie dolorose e intime, segnate dal peso del tempo, del destino e del senso di colpa, costruite attraverso architetture narrative a incastro, articolate in geometrie, simmetrie e consonanze. Ciò aveva determinato una riconoscibilità e un’identità ben precisa nel suo modo di fare e concepire la Settima Arte. Forse un’etichettà dalla quale si voleva a tutti i costi liberare, soprattutto dopo la fine del sodalizio con Guillermo Arriaga.

Voto: 6 e ½

Francesco Del Grosso

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