Scheda film
Regia: Saverio Costanzo
Soggetto: tratto dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso (Giulio Einaudi Editore)
Sceneggiatura: Saverio Costanzo
Fotografia: Fabio Cianchetti
Montaggio: Francesca Calvelli
Scenografie: Amy Williams
Costumi: Antonella Cannarozzi
Musiche: Nicola Piovani
USA, 2014 – Drammatico – Durata 109′
Cast: Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Al Roffe, Geisha Otero, Jason Selvig, Victoria Cartagena, Jake Weber, David Aaron Baker, Nathalie Gold, Victor Williams
Uscita 15 gennaio 2015
Distribuito da 01 Distribution

Un amore (non solo materno) che muore di “fame”: confusa inappetenza di “numeri primi”

Mina, Jude e il loro bambino. Un amore sghembo tra le quattro sghembe mura di una mansarda/serra/utero. Un amore a tre che (si) esclude e si inerpica nei silenzi. Mentre boccheggia senza linfa che nutra i corpi scavati. Amore che corrode ma resiste, fino alla detonazione imprevista.

Mina e Jude, asimmetrici volti di una gioventù repressa, si intercettano per caso o per scherzo a New York e si sposano. Mina resta incinta e matura l’idea che il suo bambino sarà “diverso” e che andrà preservato dalla contaminazione del mondo. Dal parto in acqua, alle manie vegane, alla sociopatia latente, Mina si trasforma con impercettibile tenacia. Come se nella donna evolvesse un alien teneramente ostile, una depressione nebulosa e vorace, inafferrabile dagli occhi del marito tanto legato a lei quanto progressivamente sconcertato. Mina non vuole nutrire il bambino secondo una dieta comunemente accettata, che sia visitato da medici o che esca di casa. Jude la asseconda ma ha paura, fino ad entrare in guerra con se stesso e con la moglie per salvare il proprio figlio.
Rabbiosa febbre di cuori affamati.

Hungry Hearts, nuova fatica di Saverio Costanzo, in sala dal 15 gennaio. Titolo magnetico e folk, già trasudato della metafisica flesh and blood dei suoi protagonisti. Titolo ritmico, quanto mai indispensabile per un’opera invece arrancante, esile, svuotata, che sembra traballare come la sua macchina da presa – che perde equilibrio fino a calarsi a piombo, accasciata, sulle sue creature in barattolo – e i suoi “fuori quadro” sporcati, tra primi piani strettissimi e carrellate immerse in un’aria formicolante, sospesa.
Un’opera che non trova ragioni, nel suo formulario algebrico stavolta balbettante. Fuori posto, come un orto urbano eretto in forma di bunker da una principessa vegana su una palazzina inizio ‘900 a picco sull’inquinata sollecitudine di un incrocio newyorkese, denso del rumore stridulo ma soffocato di taxi, botteghe e folla anonima sotto grattacieli scomodamente assiepati.

Occasione di mercato e nuova esplorazione di codici emotivi “estranei” traducibile in tragedia domestica. Dal caso Mondadori a quello Einaudi, dal romanzo dell’incensato esordiente e prodigio editorial-popolare Paolo Giordano, a quello di Marco Franzoso, alla sua quarta prova in prosa, specializzato minatore degli anfratti torbidi della famiglia contemporanea. Con una sceneggiatura, stavolta a due mani, quelle dello stesso Costanzo, tratta da “Il bambino indaco” scritto da Franzoso, il regista cerca la consueta affascinata “giusta distanza” dal suo toerema visivo di “numeri primi”. Ma assorbe con troppo zelo la bussola narrativa del romanzo, occupando lo schermo con lo sguardo inetto del protagonista maschile Jude, padre nel limbo, cacciando poco a poco nel mistero, che diventa orrore, Mina, madre iperprotettiva o omicida?

Rapito dalla risacca di una dolce ineffabile cancrena dell’anima, Hungry Hearts trascura il gioco delle parti, tracciando una spicciola a volte ridicola dicotomia bene-male. Cerca una chiave di lettura e tenta di guidare il pubblico tra i non detti, tra le pieghe dei sorrisi, i rivoli di lacrime singole o i sussulti dei pianti asciutti dei pur empatici interpreti (Alba Rohrwacher e Adam Driver, premiati con la Coppa Volpi alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2014). Costanzo si intromette in una famiglia disfunzionale, popolata di hungry hearts, veggenti e schivi/schiavi, insicuri e premurosi, autolesionisti e spiaggiati. E dilaga en plein air in un dramma da camera con vista sui dilemmi fumogeni di una granulosa Grande (piccola) Mela.
È ancora La solitudine dei numeri primi (Ita 2010). jude e Mina, due “numeri primi gemelli” tagliati nello stesso friabile blocco di una materia fonda e scivolosa. Un nucleo linguistico ancora debolmente memore dell’incandescenza horror del film del 2010 ruota lentamente nel centro di questa opera autoreferenziale e ripetitiva, zoppa e anoressica come la protagonista del precedente lavoro di Costanzo.
Dopo la prova thriller di un dramma spericolato nel suo continuo rimpallarsi da un frammento all’altro delle vite dei suoi personaggi manchevoli e paralizzati l’uno verso l’altro, Costanzo torna all’adattamento letterario con un enigma intimo, vicino a certa cinematografia nordeuropea nel pedinare una giusta difficile distanza dai protagonisti, che come in una rete di ragno velenosa si avviluppano in una morsa che non concede scampo. Il film infatti si ammala e implode, come Jude e Mina, dopo un incipit-sogno che in riva allo scuro oceano presagisce, nel temporale dei sensi, ma non premunisce, la carneficina che scaturirà dall’amore improvviso e dipendente fra Mina e Jude .
Meno sottile e coraggioso de La solitudine dei numeri primi, Hungry Hearts si accampa monotono sulle ferite mute dei protagonisti, ramificate in un sottosuolo dell’animo fin troppo scoperto, humus oltreumano di tensioni forse esplicabili ma lontane dalla logica alimentare dell’esistere insieme (e insieme al pubblico, altrettanto…solo).

Voto: 5

Sarah Panatta