Scheda film
Titolo originale: Moka
Regia: Frédéric Mermoud
Sceneggiatura: Antonin Martin-Hilbert, Frédéric Mermoud
(dal romanzo “Moka” di Tatiana De Rosnay)
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Sarah Anderson
Scenografie: Ivan Niclass
Costumi: Françoise Nicolet
Musiche: Christian García, Grégoire Hetzel
Suono: Michel Casang, Franco Piscopo, Etienne Curchod
Francia/Svizzera, 2016 – Drammatico/Thriller – Durata: 89′
Cast: Emmanuelle Devos, Nathalie Baye, David Clavel, Diane Rouxel, Olivier Chantreau
Uscita: 17 novembre 2016
Distribuzione: Officine Ubu

Un dolore troppo grande

“I figli so’piezz’e core” e la perdita per un genitore può essere un dolore immenso, insormontabile, impossibile da descrivere e da esprimere a parole. Si tratta di un tema estremamente delicato, complesso e scivoloso da affrontare. Di conseguenza, i rischi sono altissimi, poiché il grado di difficoltà è altrettanto elevato a causa del “terreno minato” sul quale si deve camminare per confrontarsi con le tante dinamiche e implicazioni emotive e morali a esso legate. Ciononostante, c’è chi, con i mezzi messi a disposizione dalla Settima Arte, ha provato a farlo con pellicole dolorosissime e strazianti. Senza andare troppo in là con la memoria, i ricordi ci portano direttamente a La stanza del figlio di Nanni Moretti o a Reservation Road di Terry George, ma la lista di titoli è decisamente molto più ampia. In entrambi i casi, con approcci alla materia diametralmente opposti, i registi hanno saputo bypassare gli ostacoli presenti sul cammino, toccando le corde del cuore e della mente dello spettatore di turno senza speculare o risultare superficiali.
Ultimo in ordine di tempo a provare a scalare l’impervia montagna, senza però riuscire a raggiungere indenne la vetta, è Frédéric Mermoud. L’opera seconda del cineasta elvetico, nelle sale nostrane a partire dal 17 novembre con Officine Ubu e vincitrice del Premio Variety al Festival di Locarno 2016, si arresta a metà strada. Le cause di questa interruzione nella scalata non sono di natura tecnica, con il lavoro davanti e dietro la macchina da presa del regista e del cast che è di tutto rispetto. bensì drammaturgica. Il suo approccio alla materia in Per mio figlio è senza alcun dubbio più vicino a quello voluto da George rispetto a quello di Moretti, soprattutto dal punto di vista delle atmosfere, del tipo di storia raccontate e delle tinte che la colorano. Quello del cineasta italiano è un film che va in un’altra direzione, conservando dal primo all’ultimo fotogramma utile una dimensione intima, che resta circoscritta nell’ambito familiare deflagrando nei suoi singoli componenti e in particolare nella figura del padre. Al contrario, in Reservation Road il dolore abbatte le mura domestiche esplodendo all’esterno, coinvolgendo chi o coloro sono responsabili di quella perdita. Ed è in questa direzione che si muove la scrittura e il plot della pellicola di Mermoud che, anche se efficace per quanto concerne lo sviluppo del racconto e i colpi di scena che lo animano, non riesce a coinvolgere emotivamente il fruitore alla pari della pellicola del collega sudafricano.
Per mio figlio sembra non volere puntare sul fattore empatico, o se quello era il bersaglio allora lo ha mancato di parecchio. Ma il vizio di forma sta alla radice, ossia nella matrice letteraria dalla quale il film viene, ossia dalle pagine del romanzo “Moka” di Tatiana De Rosnay del quale è la trasposizione cinematografica. Lo script non scava al di sotto della superficie, cristallizzando il tutto alla sola ossessione e al desiderio di vendetta della protagonista, interpretata dalla sempre all’altezza Emmanuelle Devos. Mermoud, infatti, non riesce a restituire e a trasmettere sullo schermo, come a nostro avviso avrebbe dovuto, tutta la sofferenza interiore provata da una madre che perde così tragicamente il proprio figlio. Del resto, basta leggere la sinossi per intuire immediatamente le traiettorie che prenderà la vicenda. Diane Kramer ha un’unica ossessione: trovare il conducente dell’auto che ha investito e ucciso suo figlio, devastandole la vita. Con l’aiuto di un investigatore privato, Diane raccoglie alcuni indizi che la portano verso il principale sospettato: una donna bionda proprietaria di una Mercedes color caffè. Con una valigia e poche cose, decide di trasferirsi nella cittadina dove è stata segnalata l’auto incriminata. Dopo giorni di ricerca, Diane risale all’identità della proprietaria dell’auto: Marléne, misteriosa ed elegante titolare di una profumeria del centro. Da quel momento Diane inizia ad insinuarsi silenziosamente nella vita di Marléne, stabilendo con lei un legame particolare. Ma la strada della vendetta si rivela ben presto più tortuosa di quello che pensava, tuttavia Diane è sempre più decisa a farsi giustizia da sola: per se stessa e per suo figlio.
Il risultato è un involucro che si lascia vedere e ascoltare, ma dentro è svuotato delle implicazioni e dalle varianti emotive della tragedia umana. Non è la prima volta che il regista svizzero punta sulla suddetta componente, con l’esordio dal titolo Complices che andava nella stessa identica direzione. Forse per questo, Per mio figlio andrebbe approcciato per quello che è veramente, ossia un film che “sfrutta” il tema della perdita per portare sul grande schermo una commistione più o meno riuscita di generi come il revenge movie e il thriller, con la vittima che si lancia a testa basta all’inseguimento del carnefice, per trovare un perché, dare un volto al o ai responsabili, ma soprattutto per sperare di ritrovare la pace venuta meno una volta che la vendetta sarà consumata. A quel punto, anche lo spettatore potrà avere le idee più chiare sul vero DNA dell’operazione, che a questo punto diventa più simile a quello di un film come Il buio nell’anima di Neil Jordan.

Voto: 6 e ½

Francesco Del Grosso