Scheda Film
Regia: Danny Boyle

Soggetto: Walter Isaacson
Sceneggiatura: Aaron Sorkin
Fotografia: Alwin H. Kuchler
Montaggio: Elliot Graham
Scenografie: Guy Hendrix Dyas
Costumi: Suttirat Anne Larlarb
Musiche: Daniel Pemberton
Prodotto da: Legendary Pictures, Decibel Films, Cloud Eight Films
USA, 2015 – Biografico – Durata: 122’
Cast: Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels
Uscita: 21 gennaio 2016
Distribuzione: Universal Pictures

Genio ribelle

Prendi due premi Oscar come Aaron Sorkin e Danny Boyle, affidagli rispettivamente la sceneggiatura e la regia di un film dedicato a una figura straordinariamente importante come quella di Steve Jobs, mettigli a disposizione degli attori di grandissimo livello come Michael Fassbender e Kate Winslet, e voilà il gioco è fatto. Una ricetta niente male già sulla carta, particolarmente succulenta e appetitosa tanto per i buon gustai quanto per i palati più esigenti. Entrambe le tipologie saranno sicuramente soddisfatte dal menù e dagli “ingredienti” pregiati che vanno a comporre le singole portate. Un menù, quello di Steve Jobs, che sarà servito sugli schermi nostrani dalla Universal Pictures a partire dal 21 gennaio 2015.
Partiamo con il dire che tutti coloro che si aspettano un biopic vecchia scuola rimarranno a bocca asciutta, poiché il caro Sorkin sembra avere una certa reticenza, per non dire allergia, nei confronti del modello solitamente utilizzato dalla stragrande maggioranza degli sceneggiatori di tutte le latitudini quando si trovano a misurarsi con pellicole a sfondo biografico, costruite sulle esistenze di personaggi ancora in vita o non più. L’approccio alla materia e alla figura di turno sono, infatti, salvo rari casi come questo che ci apprestiamo ad analizzare, quasi sempre gli stessi, con un’architettura narrativa che segue alla lettera uno schema comune e piuttosto ricorrente, basato sul racconto più o meno cronologico degli eventi che vanno dalla nascita sino – se avvenuta – alla dipartita del soggetto in questione. Per lo script di Steve Jobs, lo sceneggiatore e commediografo newyorchese prende in prestito l’ormai logora struttura tradizionale per poi rimaneggiarla a proprio uso e consumo, quanto basta per personalizzarla e rendere riconoscibile il suo tocco. Lo sceneggiatore statunitense scorrendo a doppia velocità il CV del genio indiscusso e fondatore della Apple, individua tre momenti chiave della sua carriera (le tre storiche presentazioni in pompa magna che lo hanno visto protagonista: del Macintosh 128k nel 1984, del NeXT Computer nel 1988 e del Mac nel 1998) e su e con essi costruisce una drammaturgia in altrettanti atti. Dunque, la successione resta sempre in ordine cronologico, ma progredisce attraverso enormi balzi temporali in avanti, esattamente il contrario del modus operandi voluto da Matt Whiteley per lo script dell’altalenante Jobs diretto da Joshua Michael Stern nel 2013, che vedeva un iniziale rewind al quale seguiva un viaggio nei momenti più significativi del protagonista a partire dal 1974. Il paragone non regge ovviamente, con lo script di Sorkin che appartiene a un altro mondo e dove a spiccare sono il ritmo, la fluidità del racconto e la solidità dell’impianto dialogico. A questi elementi si va ad aggiungere anche un disegno tridimensionale dei personaggi, che non può che elevare all’ennesima potenza le interpretazioni degli attori coinvolti, a cominciare dalla Winslet (meritatamente premiata con il Golden Globe) che regala l’ennesima potentissima performance calandosi nei panni della fedele collaboratrice Joanna Hoffman. Ben delineato e sfaccettato (a differenza di quello affidato ad Ashton Kutcher nel film di Stern) anche il Jobs affidato a Fassbender (nomination all’Oscar), nonostante l’attore irlandese non conservi la stessa continuità e intensità in tutti e tre gli atti. Sorkin mette sotto la lente d’ingrandimento la vita e la carriera di Jobs, un po’ come aveva fatto qualche anno fa con lo Zuckerberg di The Social Network, mettendone a nudo anche le fragilità, le debolezze e gli aspetti meno noti del carattere (a tal proposito consigliamo anche la visione del documentario Steve Jobs – The Time Machine di Alex Gibney, dove emergono lati inediti). E per farlo si appoggia agli scritti biografici autorizzati di Walter Isaacson, pubblicati nel 2011.
Non si può dire lo stesso purtroppo del lavoro dietro la macchina da presa di un Danny Boyle con il freno a mano tirato, a nostro avviso inadatto all’impronta che Sorkin ha deciso di dare alla scrittura e di riflesso al progetto. Il regista britannico, reduce dal pessimo Trance, appare come un “animale selvaggio” catturato e chiuso in gabbia, che si dimena tra le sbarre in cerca di una molteplicità di spazi dove dare libero sfogo alle sue ipercinetiche, ultrapop, appariscenti e continue soluzioni visive e stilistiche. Quest’ultime, marchio di fabbrica sin dagli albori del suo cinema, sono giocoforza imbrigliate, perché qui non possono riversarsi nel quadro. Anche quando la circoscrizione topografica e la restrizione degli spazi si erano presentate come condizioni imposte dalla storia, come ad esempio in 127 ore, lui aveva comunque deciso di non farne a meno, al contrario ci aveva puntato esasperando le soluzioni (aiutandosi con il montaggio) per dare origine a un contrappunto tra l’immobilità del protagonista e l’inarrestabile spostamento epilettico della macchina da presa. Gli esiti, in quel caso, gli diedero ampiamente ragione. L’impianto teatrale eretto da Sorkin, invece, ne impedisce la manifestazione, di conseguenza Boyle si è trovato costretto a firmare una regia meno presente tecnicamente, asciutta in termini di stile, completamente al servizio dello script, dei personaggi e della direzione degli attori chiamati a interpretarli. Gli vanno riconosciuti i meriti di essersi messo a disposizione della causa, svolgendo tali compiti in maniera precisa e attenta, ma il risultato per quanto lo riguarda e ci riguarda è anonimo, irriconoscibile a una prima occhiata e non attribuibile al suo modo di concepire e fare la Settima Arte. Insomma, se non ci fossero i titoli di testa e di coda a ricordarcelo, probabilmente non gli avremmo mai riconosciuto la paternità registica di un film come questo.
A questo punto, la domanda nasce spontanea: perché si è deciso di affidare Steve Jobs a Boyle? Non che il risultato, come abbiamo avuto modo di appurare non sia degno di nota, piuttosto perché nel panorama internazionale sono presenti tutta una serie di registi che probabilmente avrebbero saputo fare proprio il progetto molto più di lui. Lo stesso David Fincher sarebbe calzato a pennello, replicando quanto di ottimo consegnato alle platee non più tardi di sei anni fa con il meraviglioso The Social Network, che tante soddisfazioni ha dato al regista di Denver e all’autore della sceneggiatura Aaron Sorkin.

Voto: 7 e ½

Francesco Del Grosso