Dopo la fine dello storico sodalizio con Ciprì, il regista palermitano porta sullo schermo un’opera incompiuta o incompleta a seconda dei punti di vista che, seguendo traiettorie diverse, non può che riportare alla mente il “maledetto” Don Chisciotte di Terry Gilliam (è notizia recente di un nuovo tentativo), la cui travagliata lavorazione ancora oggi bloccata è stata documentata in Lost in La Mancha da Keith Fulton e Louis Pepe.

Un’opera, questa, tanto ambiziosa quanto scomoda, che nelle intenzioni del suo autore avrebbe dovuto raccontare le origini criminali di Silvio Berlusconi in Sicilia, passando attraverso una raccolta di testimonianze di fedelissimi come Marcello Dell’Utri, pentiti di mafia (Mutolo) e cantanti neomelodici di bandiera berlusconiana. Muoversi su un terreno minato del genere non poteva che creare una serie di problematiche a chi avesse deciso di provare ad attraversalo, anche se costui risponde al nome di Maresco; uno che le mani non ha mai avuto paura di sporcarsele.

Al cospetto di Belluscone è impossibile non pensare a qualcosa che assomiglia più o meno vagamente alla forma e ai caratteri distintivi del mockumentary e della docu-fiction, nei quali le tre suddette strade finiscono con l’intrecciarsi. Maresco dimostra di non volere rinunciare al suo modo di fare cinema, non rinnegando quanto fatto in precedenza a differenza dell’ex collega di set che ha preferito percorrere strade meno tortuose. Ne viene fuori un affresco folle e drammaticamente divertente che mescola politica, biografia, illegalità, sporchi affari, cronaca nera e musica. Un’irriverente e cinica odissea filmica che gioca con toni e registri, passando con un battito di ciglia dal serio al grottesco. Maresco invade più volte lo schermo e ci mette la faccia, quella tosta di chi non ha paura di fare domande pericolose per ottenere risposte altrettanto pericolose sulla mafia.

Vito Casale