La ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma si terrà dal 15 al 26 ottobre 2025. La manifestazione – riconosciuta ufficialmente dalla FIAPF (Fédération Internationale des Associations de Producteurs de Films) – si svolgerà presso l’Auditorium Parco della Musica che ospiterà le principali sale di proiezione e il lungo red carpet, uno dei più grandi al mondo. Il programma coinvolgerà inoltre altri luoghi e realtà culturali della Capitale.
Dal 2022, la Festa del Cinema ha introdotto nel suo regolamento un concorso internazionale: i film saranno giudicati da una giuria composta da professionisti del mondo del cinema, della cultura e delle arti. Il programma ospiterà altre sezioni non competitive, gli Incontri con il pubblico, eventi, proiezioni speciali e omaggi.
La natura della Festa del Cinema è nella sintesi tra una programmazione di qualità e una fruizione popolare: il pubblico, al quale sono rivolti la stragrande maggioranza degli eventi in programma, gioca la parte del protagonista. Particolare attenzione è dedicata alla politica dei prezzi che prevede anche la presenza di numerosi eventi a ingresso gratuito.
La biglietteria aprirà una settimana circa prima dell’inizio della Festa e sarà attiva per tutta la durata della manifestazione. Numerose convenzioni renderanno più immediata e coinvolgente l’esperienza alla Festa del Cinema.
La manifestazione è organizzata dalla Fondazione Cinema per Roma grazie al supporto dei Soci Fondatori e dei numerosi partner che ogni anno scelgono di sostenere la Festa del Cinema partecipando attivamente alla costruzione dell’evento: una testimonianza dell’attenzione che le aziende hanno nel sostenere la missione e i valori della Fondazione.
Direttrice Artistica della Festa del Cinema è Paola Malanga, giornalista e critica cinematografica, tra i fondatori della rivista Duel e tra i principali collaboratori di Paolo Mereghetti per il Dizionario dei Film, autrice di celebri saggi su alcuni grandi autori del cinema mondiale e vicedirettrice di Rai Cinema.
Nel suo lavoro, la Direttrice Artistica della Festa del Cinema di Roma, Paola Malanga, sarà affiancata da un comitato di selezione composto da: Giovanna Fulvi, esperta di cinema asiatico, tra i programmatori del Festival di Toronto; Enrico Magrelli, critico cinematografico, ex Direttore della Settimana internazionale della critica; Emanuela Martini, critica cinematografica, ex Direttrice del Torino Film Festival; Alberto Pezzotta, critico e storico del cinema, ex membro del comitato di selezione della Mostra del Cinema di Venezia; Alberto Libera, critico cinematografico, direttore della rivista “Lo specchio scuro” e del Brianza Corto Film Festival.
Hen (György Pálfi). La prima inquadratura vale da sola il prezzo del biglietto: il culo della gallina dal quale fuoriesce un uovo. Poi inizia la storia di questo Calimero, un pulcino piccolo e nero, che diventerà una pennuta adulta, peregrinando a destra e a manca. Sempre attraverso il punto di vista della gallina, scopriremo come sia approdata in finale in un luogo oggetto di loschi traffici, dove vengono contrabbandati migranti… Tra antichi dilemmi – È nato prima l’uovo o la gallina? – ed eterni proverbi – Meglio un uovo oggi che una gallina domani – Hen è cinema puro, con pochi, essenziali dialoghi, e tanta musica extradiegetica ad uso narrativo, un piacere per gli occhi e le orecchie, che non si nega anche l’impegno politico e la denuncia. Metafora di tanti esseri umani che si limitano, come la protagonista, a guardare e basta, senza capire, mentre l’unico umano dotato di coraggio farà una brutta fine, la pellicola procede fino a chiudersi in maniera circolare, così come era iniziata. Il greco Pálfi ci regala un’opera unica e originale, molto più profonda di quanto ci si sarebbe potuti immaginare. (Diet)Etico. Concorso Progressive cinema. Voto: 9
Anatomia de un instante (Alberto Rodriguez). Ispirata al libro omonimo di Javier Cercas, la serie TV per circa tre ore di durata rievoca il colpo di stato che il 23 febbraio 1981 attentò alla neonata democrazia spagnola, dopo che da qualche anno il Paese era rimasto orfano del generale Franco. Quando il tenente colonnello della Guardia Civil Antonio Tejero irruppe nel Congresso, solo tre uomini non si scomposero: il presidente Adolfo Suárez, l’ex militare Manuel Gutiérrez Mellado e il segretario del rinato Partito comunista spagnolo Santiago Carrillo. Attraverso la voce narrante dell’autore del libro, che commenta argutamente e ironicamente ogni singolo passaggio, la serie ripercorre i corridoi e le stanze segrete del potere in una vicenda, cruciale per la Spagna, le cui responsabilità potrebbero essere state insospettabilmente molto in alto. La dilatazione dei tempi permette un’approfondita introspezione psicologia che eleva il livello del prodotto. Ad interpretare l’odiato/amato (in patria) Suárez è uno stupefacente e irriconoscibile Álvaro Morte, il Professore di un’altra celebre serie spagnola, La casa di carta. Filologico. Freestyle Serie. Voto: 8
Il falsario (Stefano Lodovichi). Tony Chichiarelli è stato uno dei più famosi falsari italiani. Forse non il più bravo, anche se il talento non gli mancava, ma sicuramente il più ambizioso. Qui si racconta la storia di Toni, con la “i”, un po’ Chichiarelli e un po’ no. Giunto nella Roma di fine anni settanta, può vantare un amico prete, un altro brigatista (rosso) e una fidanzata gallerista d’arte che lo mette in contatto con una nota banda (quella della Magliana), la Mafia, i servizi segreti deviati e i NAR. Serve altro per un thriller eccezionale? Stefano Lodovichi, sostenuto dalla sceneggiatura di ferro scritta da Sandro Petraglia, gira un film “falso” sul falsario. Il vero Tony nel 1984 viene freddato perché ormai ne ha viste e sentite troppe, mentre a “Toni”, grosso modo nel 1981 viene data una chance, un po’ come alla Sharon Tate raccontata da Tarantino in C’era una volta… a Hollywood, oppure è solo una tregua temporanea. Non aggiungiamo altro per non spoilerare una trama ricca di intrighi e di colpi di scena, soprattutto nel finale. Pietro Castellitto è identico al vero Tony, anche se questa è solo una delle sue possibili storie, come avvisa la didascalia iniziale, e il resto del cast non è da meno: Santamaria è figlio di quel personaggio interpretato da Donald Sutherland in JFK di Oliver Stone, che, quando piove, cammina tra una goccia e l’altra senza bagnarsi; Pesce è un perfetto boss, Ferracane è un luciferino Zu’ Pippo (Calò?), Michelini e Giovinazzo sono le bimbe di Toni, ognuna al proprio giusto posto. Un sussulto nel cinema italiano. Trasversale, come Toni/y. Grand public. Voto: 8
Leibniz: Chronik eines verschollenen Bildes/Leibniz – Chronicle of a lost painting (Edgar Reitz). Nel 1704 la regina Sofia Carlotta di Prussia commissiona un ritratto del filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz, il teorico dei mondi possibili, ma anche il precursore del calcolo infinitesimale, Un atto di devozione, come pure un modo di provare a catturare una forte personalità che la sovrasta. Il pittore Pierre-Albert Delalandre pensa di cavarsela col suo mestiere, aggiungendo solo un volto ad uno schema prefissato, con tanto di parrucca, ma è provocato e messo in crisi dal filosofo e costretto ad abbandonare l’impresa. Entra in scena una nuova artista, Aaltje Van der Meer, con la quale Leibniz si trova estremamente a suo agio, riflettendo insieme a lei su che cosa sia la rappresentazione pittorica… Lo splendido novantenne Edgar Reitz, premiato a questa festa dall’altrettanto splendido settantenne Nanni Moretti, gira un film rigoroso, ma al tempo stesso agile e trascinante. Il tema è lo scorrere del tempo, inevitabile, e il tono è sottilmente ironico. Che cosa chiedere di più ad un maestro riconosciuto del cinema contemporaneo? Best of 2025. Voto: 8
Nino (Pauline Loquès). È venerdì e il giovane Nino scopre quasi all’improvviso di avere un tumore alla gola e di dover iniziare le cure necessarie il lunedì successivo. Obiettivo primario sembra essere quello di ottenere un campione dei suoi spermatozoi per preservarli dalla devastazione delle imminenti terapie. Ma ha dimenticato le chiavi di casa. Passa così il weekend tra illusioni e rimpianti, tra affetti vecchi e nuovi, con uno sguardo molto, ma non del tutto impaurito verso l’immediato futuro… Un po’ più rispetto alla protagonista di Cleo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda, cui la mente inevitabilmente va, il protagonista di questa storia dovrà rivedere tutta la propria breve vita come in un film. Ma l’occhio della regista è molto empatico, col personaggio e con lo spettatore, ed estremamente poetico: ad esempio, entrato in intimità con una vecchia compagna di scuola, non le chiederà di masturbarlo, al fine di ottenere i tanto bramati spermatozoi. ma lei avrà la brillante idea di eccitarlo leggendo delle pagine ad alto contenuto erotico, comunicando dalla stanza accanto con il baby-monitor che Nino aveva appena acquistato da lei in un improbabile mercatino da lei tenuto per sopravvivere. Un film fresco, spontaneo, permeato di ironia e voglia di vivere. Non a tutti nella vita viene data una seconda occasione, ma a Nino forse sì. Concorso Progressive cinema. Voto: 8
Rino Gaetano sempre più blu (Giorgio Verdelli). Dopo il documentario su Enzo Jannacci, questa volta al centro dell’obiettivo di Verdelli c’è un altro “giullare”, una delle figure più interessanti ed enigmatiche che hanno attraversato l’italia per tutti gli anni settanta. L’enigma principale è che cosa avrebbe potuto produrre se la sua carriera e la sua vita non si fossero spezzate a soli trent’anni per un incidente automobilistico, da una parte come uno dei suoi miti, Fred Buscaglione, e dall’altra come anche sinistramente previsto in una sua canzone, “La ballata di Renzo”. I racconti dei numerosi protagonisti di quegli anni, molti dei quali lo conobbero veramente da vicino, ci accompagnano alla scoperta della genialità di Rino Gaetano, un’artista ancora attuale perché all’epoca era così avanti rispetto ai propri tempi da non venir sempre capito o dall’essere spesso sottovalutato se non denigrato coram populo. Il suo “essere fuori” (dal contesto, dall’establishment, dal tempo) gli ha permesso di essere riscoperto negli anni novanta, (ri)trovando un successo che non si è ancora spento e ispirando generazioni di cantautori, da Brunori Sas a Sergio Cammariere, peraltro suo lontano parente, fino al contemporaneo Lucio Corsi. I suoi calembour sono ancora forieri di sorpresa, ascoltandoli oggi, e i cavalli di troia di quelle che solo a pochi stolti potevano sembrare “canzoncine” lo hanno trasportato e continuano a trasportarlo in tutte le società, passate, presenti e future. Andando materiali audio e video non proprio di dominio pubblico o comunque non già sputtanati, Rino Gaetano sempre più blu riesce anche a commuovere, cosa alquanto insolita per un documentario. Freestyle Arte. Voto: 8
Yek tasadef sadeh/It was just an accident (Jafar Panahi). Una notte, tornando a casa con la moglie e la figlia, un uomo investe un cane, causando un guasto alla propria macchina. Recatosi presso un’officina, nel suo passo claudicante il meccanico Vahid crede di riconoscere “Gamba di legno”, il più feroce dei suoi torturatori quand’era prigioniero politico, però mai visto in faccia. Decide così di rapirlo e di caricarlo su un furgone, andando alla ricerca di altri perseguitati politici come lui per avere conferma della sua identità… La mente va inevitabilmente a La morte e la fanciulla di Roman Polanski, a sua volta tratto dall’omonimo dramma teatrale di Ariel Dorfman, ma, trattandosi di Panahi, la questione si fa ancora più complessa, simbolica e grottesca. Sacrosanto vincitore della Palma d’Oro a Cannes di quest’anno, il film è un lucidissimo affresco politico sulle conseguenze umane e morali del regime iraniano. Quasi un road movie che cattura fin dalle primissime immagini, fino agli ultimi, ambigui fotogrammi. Necessario. Best of 2025. Voto: 8
Dracula: A love tale/Dracula – L’amore perduto (Luc Besson). Un principe rumeno nel XV secolo, in seguito alla morte della moglie, che non è riuscito a salvare dai suoi nemici, rinnega Dio, trasformandosi in vampiro. Secoli dopo, nella Londra del XIX secolo, incontra una giovane donna identica a lei e non riuscirà a resisterle… Proprio nello stesso anno in cui è uscito già Nosferatu di Robert Eggers, c’era davvero bisogno di un’altra versione di Dracula? Grazie al magnetismo di Caleb Landry Jones, alla bellezza di Zoë Bleu e di Matilda De Angelis e all’estro di Luc Besson, la risposta è: sì. Ispirandosi al film omonimo di Francis Ford Coppola, citandolo, e anche al Nosferatu – Il vampiro di Murnau, il regista di Leon mette in scena una eterna e struggente storia d’amore, che prevale sull’orrore e sulla vita (eterna). Il desiderio imperturbabile del protagonista per la propria sposa Elisabeta, destinato a sopravvivere nei secoli, fino ad incontrare Mina, è il leit-motiv della pellicola.La regia di Besson non manca di trovate, ma il grosso del merito della riuscita di un film, che va visto per credere, risiede nelle interpretazioni degli attori principali, assolutamente impagabili. Amoreterno. Grand public. Voto: 7 e ½
Kenny Dalglish (Asif Kapadia). La vita, più che le prodezze, di una delle leggende del calcio britannico, con una carriera divisa tra Celtic e Liverpool: Kenny Dalglish. Erede naturale di Kevin Keegan e passato ad allenare il Liverpool quando era ancora un giocatore in campo, fu protagonista, suo malgrado, di due tragedie che lo segnarono molto, ma che poco avevano a spartire con lo Sport: Heysel (1985) e Hillsborough (1989). Dopo numerosi personaggi dello sport, come Maradona, Senna e Federer, ma non solo (Amy Winehouse), Asif Kapadia si dedica ad una figura sportiva non universalmente nota e per questo ancor più interessante. Ad emergere è anche l’esatto e preciso contesto storico dell’epoca – siamo in pieno thatcherismo – con cortocircuitazioni di carattere storico e politico. Il regista è una garanzia e film, figura e messaggi arrivano diretti anche a chi di sport ne possa capire ben poco. Sociologico. Special screenings. Voto: 7 e ½
LIBERO sempre comunque mai (Alessio Maria Federici). Attraverso i racconti dei tanti amici, il regista Alessio Maria Federici racconta un attore che il nostro Cinema ha perso troppo presto. Libero De Rienzo, sul cui nome già dall’inizio c’è un piccolo giallo: tutti sono concordi nel ricordare di averlo sempre chiamato “Picchio” e che Libero fosse solo un nome d’arte in quanto il suo vero appellativo fosse “Pasquale”. Già da qui si capisce l’eccezionalità e la “profondità”, più che la “stazza” del personaggio. Vengono raccontati lati non del tutto noti del suo lavoro, dai suoi inizi teatrali al curioso debutto alla regia nel 2006 Sangue – La morte non esiste, dalla fascinazione per gli aspetti tecnici del Cinema fino al suo essere un attore estremamente naturale, che rifuggiva ogni tipo di costrizione, dal copione in su. Una ferita ancora aperta, la morte di Libero/Picchio/Pasquale, che la visione di alcuni divertentissimi dietro le quinte dei film cui ha partecipato riesce solo in parte a lenire. Gigantografico. Freestyle Arte. Voto: 7 e ½
Moss & Freud (James Lucas). Intorno al 2000 la celeberrima modella Kate Moss accetta di essere ritratta dall’anziano pittore Lucian Freud, nipote di Sigmund e padre di una sua amica. L’impegno le richiede molta disciplina e, al termine delle sessioni, nessuno dei due artisti sarà lo stesso di prima… Interessante film che racconta una vicenda poco nota e prova del quasi novantenne Derek Jacobi, al quale la giovane, ma non sprovveduta, Ellie Bamber riesce a tenere desta, generando dei duetti permeati di magia. La pellicola vuole essere una saggio sul potere dell’arte, sia esso taumaturgico che spirituale: una storia di crescita, quasi un coming-of-age in cui a maturare sono entrambi i protagonisti, anche se situati a frange opposte della vita. Un piccolo capolavoro da non perdere! Grand public. Voto: 7 e ½
Nouvelle vague (Richard Linklater). Datata già 1959 nel titolo iniziale, come se fosse veramente di quell’epoca, l’ultima creazione del geniale Linklater è un’immersione a 360° nella creazione di quel capolavoro, della “Nouvelle vague” del titolo, che fu À bout de souffle/Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, tra gli ultimi critici dei Cahiers du Cinema ad esordire nel lungometraggio. Didascalico, ma molto intelligente, nel marchiare tutti i protagonisti fin dalla loro prima apparizione con il loto nome e cognome in sovrimpressione, il film è un trip nella mente del regista che poi avrebbe girato, tra gli altri Bande à part, iconoclasta numero uno, che girava solo con degli appunti, senza una vera e propria sceneggiatura, cambiando idea nel corso delle riprese di una scena, facendo impazzire il produttore di turno, ma non solo. Girata nello stesso bianconero di Raoul Coutard, stavolta curato da David Chambille, la pellicola è una manna per gli occhi di ogni cinefilo. Maniacale. Best of 2025. Voto: 7 e ½
Per te (Alessandro Aronadio). Ispirato alla vera storia di Paolo Piccoli e di suo figlio Mattia, insignito della carica di “Alfiere della Repubblica” per il sostegno dato al padre, il film racconta la vicenda di un uomo che si ammala di Alzheimer precoce ed inizia a combattere con la perdita dei ricordi, tra cui quello più prezioso: la sua famiglia. Aronadio sceglie una storia dall’alto potere ricattatorio, che però riesce a dominare in maniera egregia: il segreto sono le suggestioni da cinema comico, come alcune musiche usate nel film, il nucleo famigliare che si reca ad una festa in maschera agghindato come i miti del cinema muto e diversi inserti paralleli dell’amimico Buster Keaton, sempre spaesato in cose più grandi di lui, un po’ come il malato di Alzheimer che via via si trova a vivere in un mondo che non riesce a riconoscere più. Questo regala un insolito (e inatteso) tono ironico al film, aumentandone il valore e coinvolgendo così lo spettatore, facendo perdonare alcune eccessive semplificazioni della narrazione. Buona la performance di Edoardo Leo, ottima Teresa Saponangelo, che è sempre un piacere ritrovare sullo schermo, ma il piccolo Javier Francesco Leoni si mangia tutti! Mnemofobo. Grand public/In coproduzione con Alice nella Città. Voto: 7 e ½
Put your soul on your hand and walk (Sepideh Farsi). Una regista iraniana intesse una lunga conversazione via videochiamata, con la giovane foto-giornalista di Gaza Fatma Hasosuna, che si protrae per più di un anno. Quando il film, derivato da tali colloqui, è quasi finito e si sa che parteciperà a Cannes, accade l’irreparabile… Vero scoop, senza alcun giudizio da parte di chi scrive, per la regista Farsi, che, già importante di per sè per la testimonianza offerta, alla luce dei fatti assume un valore unico e inestimabile. Cinematograficamente minimo, essenziale, poiché consistente nelle riprese delle chiamate, con l’aggiunta di qualche immagine o filmato inviato dalla ragazza, il documentario vale enormemente per restituire il dramma di Gaza, che alla fine si consumerà inesorabilmente. Ma vale anche per il sorriso imperturbabile di Fatma, che ci racconta miserie e crimini, con la speranza travolgente che un giorno possano finire, ma anche con l’agghiacciante e ingravescente probabilità di poterne essere prima o poi coinvolta anche lei. Agghiacciante. Special screenings. Voto: 7 e ½
Breve storia d’amore (Ludovica Rampoldi). Rocco (Adriano Giannini), sismologo, sposato con Cecilia (Valeria Golino), psicanalista, ma senza figli, conosce in un bar Lea (Pilar Fogliati), giornalista, che ha una relazione e una figlia con Andrea (Carpenzano), attore. Al terzo incontro clandestino, la relazione tra i due si infittisce e Lea inizia a farsi sempre più presente nella vita di Rocco, fino a diventare paziente di Cecilia. Ma le cose in realtà stanno diversamente… Esordio nella regia di una stimata e fortunata sceneggiatrice (La doppia ora, Gomorra: La serie, The bad guy), il film parte in sordina, in maniera poco originale, per poi rivelarsi – letteralmente – nel finale, dove un doppio colpo di scena dona un senso al tutto. Principale difetto della pellicola, tipico dei debutti dietro la macchina da presa deli sceneggiatori, è di essere “troppo scritta”, cioè di creare situazioni troppo teoriche e poco pratiche, oppure forzate – si pensi alla psicoanalista Cecilia che, curiosamente, spara al poligono come hobby! al fine di determinare gli eventi successivi. Diviso in otto capitoli, il cui titolo di ciascuno ricorrerà nei dialoghi del segmento che introduce, il film comunque funziona, grazie anche, ma non solo, alle splendide interpretazioni di tutti i protagonisti. Fedifrago. Grand public. Voto: 7
Couture (Alice Winocour). Nella Fashion Week parigina si intrecciano i destini di tre donne: Maxine Walker (Angelina Jolie), una regista americana giunta in città per girare un film horror, che dovrà essere inserito nelle sfilate, la quale si trova a confrontarsi con un importante problema di salute; Angèle (Ella Rumpf), una truccatrice francese che, tra un set e l’altro, cerca di scrivere un libro per assecondare le sue aspirazioni letterarie; Ada (Anyier Anei), una modella diciottenne, studentessa di farmacia, arrivata da Nairobi come “scoperta esotica” delle passerelle. Sullo sfondo, una possibile apocalisse… Alice Winocour (Proxima) gira una pellicola molto interessante, che gioca su molteplici piani, raccontando il desiderio di affermazione di tre donne, di diverse fasce d’età, e della non semplice realizzazione di esso. E non rinnega mai la speranza. L’ambiente della moda passa in secondo piano, reso quotidiano e umano dalle vicende delle tre protagoniste, ma anche dall’abilità della regista, che riesce a raccontarlo in maniera inedita. Est moda in rebus. Grand public. Voto: 7
Eddington (Ari Aster). Siamo alla fine di maggio 2020, nell’immaginaria cittadina del titolo, situata in New Mexico. Lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) decide di sfidare alle elezioni il sindaco uscente Ted Garcia (Pedro Pascal). Un centro di elaborazione dati, il “SolidGoldMagikarp”, sta per sorgere nei paraggi e gli interessi sono molteplici e inattaccabili. La faida tra i due prenderà una piega inaspettata che scatenerà un’insolita ondata di violenza che coinvolgerà tutti quanti, nessuno escluso… Il film di Ari Aster, che tenta di emanciparsi dall’horror, potrebbe essere visto come una versione di Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson, ma da un punto di vista completamente diverso: anche qua ci sono la violenza, il complottismo, ordini e agenti superiori che cercano in ogni modo di influenzare gli eventi della nazione. Forse è tutto un po’ confusionario e dilatato (due ore e mezza di durata!), ma la forza della pellicola di Aster, che non risparmia anch’essa nessuno, è pari, se non superiore all’altra. Un cast stellare e in gran forma, con la partecipazione di Emma Stone e Austin Butler, nobilitano un film dagli spunti interessanti, ma dal rendimento altalenante. Comunque da non perdere! Best of 2025. Voto: 7
Elena del ghetto (Stefano Casertano). La notte del 16 ottobre 1943, una donna corre sotto la pioggia attraverso il ghetto ebraico di Roma per mettere in guardia tutta la popolazione a riguardo di una retata che il giorno dopo l’esercito tedesco avrebbe effettuato ai suoi danni e che lei ha appreso da fonti sicure. È Elena Di Porto, anticonformista, madre di due figli, che ha cacciato il marito, che veste i pantaloni, tira di boxe e si arrabbia spesso con chiunque. Il suo comportamento, troppo esuberante per quegli anni, l’ha condotta non poche volte in Manicomio. Come crederle?… Una produzione della rinnovata Titanus, annunciata qualche anno fa, che racconta una pagina poco conosciuta della nostra storia recente, partendo con cinque anni di anticipo, per evidenziare tutta l’ascesa dell’orrore. Lo stile non è affatto televisivo ed Elena ha le fattezze di una eccezionale Micaela Ramazzotti, che, per l’occasione, insieme a buona parte del cast, sfoggia il prezioso e suggestivo dialetto giudaico-romanesco. Per ricordare. Grand public. Voto: 7
Esta isla (Lorraine Jones Molina e Cristian Carretero). Il giovane Bebo vive col fratello in un complesso popolare situato nel cuore di un piccolo centro costiero di Porto Rico, dove la pesca è l’unica risorsa, anche se il bisogno di guadagni immediati costringe tutti a compiere attività illecite. Quando il fratello viene assassinato per un regolamento di conti, la reazione di Bebo è immediata, uguale e contraria. Ma il bagno di sangue generato, lo costringe ad attraversare montagne e sentieri, in compagnia di Lola, ragazza dell’alta società in fuga dal proprio mondo dorato, e con i sicari alle calcagna… Carretero, con la collaborazione dell’esordiente Jones Molina, rielabora il suo omonimo corto del 2014 per raccontare attraverso i filtri del noir un frenetico coming-of-age che riflette anche tutte le contraddizioni sociali di Porto Rico. Neorealista. Concorso Progressive cinema. Voto: 7
Gioia mia (Margherita Spampinato). Il piccolo Nico (Marco Fiore), non potendo più essere seguito dalla sua storica baby-sitter, poiché prossima alle nozze, viene spedito in vacanza in Sicilia presso Gela (Aurora Quattrocchi), un’anziana zia “signorina”, in una casa in cui i muri nascondono segreti e dove gli spiriti sono soliti avere dimora. Due mondi lontanissimi, con il primo iper-tecnologico e sempre col cellulare in mano e la seconda lontana anni luce dal mondo odierno. Inizialmente sarà uno scontro, poi un confronto, quindi un incontro. La debuttante di lusso Margherita Spampinato, dopo mezza vita spesa nel cinema tra script supervisor e continuity, ci regala un racconto condotto con delicatezza e dallo schietto sapore autobiografico, sincero, verace, puro, che non scorderemo facilmente. La vicenda di Nico e della sua zia burbera, ma buona che custodiva segreti allora inconfessabili, ma oggi estremamente contemporanei, parte lento e poi cresce piano piano, fino a montare in una lieve, effervescente brezza. Onesto. Alice nella città Panorama Italia. Voto: 7
Il grande Boccia (Karen Di Porto). Noto più per una battuta di Alberto Sordi raccontata da Fellini – “Purtroppo non te l’hanno dato (l’Oscar), ha detto adesso la radio che l’hanno dato a Tanio Boccia!” – che per i suoi film, il regista di Sansone contro i pirati viene raccontato sul grande schermo in un film pieno di affetto diretto da quella Karen Di Porto che, sempre a questa festa, avevamo apprezzato nel 2016 con il suo spiritoso debutto Maria per Roma. Tanio Boccia, da molti considerato l’Ed Wood italiano, è stato più una sorta di Mario Bava di ancor più basso profilo, che suppliva alle mancanze (di qualsiasi cosa) con qualsiasi cosa, dando fondo alla propria creatività. Il fulcro del film sono le quattro pellicole che girò insieme, con stessi cast, troupe e set, nel 1964: I predoni della steppa, Maciste alla corte dello zar, Il dominatore del deserto, La valle dell’eco tonante. Ovviamente tutti fuori tempo massimo perché era già arrivato il tempo dei western all’italiana.
L’idea vincente è quella di girare in estrema ristrettezza di budget come lo stesso regista di allora e di scegliere per interpretarlo un attore un po’ guascone e un po’ cialtrone, per l’occasione ingrassassimo, che forse non ha mai avuto la sua grande occasione: Ricky Memphis. Tra scene esilaranti – memorabili i suoi “Buona la prima” o “Buona la prova” o ancora l’episodio in cui, alla richiesta di 40 metri di carrello laterale il produttore obietta che abitualmente siano 10 e Tanio replica: “Ma quanti film stiamo facendo?!” – Il grande Boccia restituisce la magia di un cinema che non c’è più, di una stagione ormai, purtroppo o per fortuna, irripetibile. Nostalgico. Freestyle Film. Voto: 7
L’accident de piano (Quentin Dupieux). Magalie Moreau, in arte “Magaloche” (una irriconoscibile e bravissima Adèle Exarchopoulos), è affetta da una curiosa e rara patologia che le impedisce di provare dolore fisico. Cominciando a girare filmini con la propria macchina fotografica digitale, mentre infliggeva sofferenze al proprio corpo, con l’avvento delle piattaforme social è diventata un’influencer famosissima. Ma un giorno succede un incidente, quello del titolo… Dupieux stupisce sempre per storie al limite, puntando il dito questa volta contro youtuber e compagnia cantante, inventando un caso estremo dove il dolore stesso, proprio perché assente, viene spettacolarizzato. Il regista è sempre spartano e diretto, tagliando le emozioni ai suoi personaggi, con il solito risultato di una messa in scena buffa, ma efficace. Il grottesco prevale, Exarchopoulos è straordinaria e il film funziona. Analgesico. Progressive cinema. Voto: 7
Pontifex – Un ponte tra la misericordia e la speranza (Daniele Ciprì). Realizzato (e commissionato) in occasione del Giubileo in corso, la docu-fiction si snoda intorno ad una lunga, interessante intervista a S.E.R. Mons. Fisichella su grandi questioni contemporanee, dalla libertà alle IA, ribadendo sempre l’importanza della Speranza e dell’Amore. Fanno da intermezzo elementi fiction in cui dialogano una donna (la Speranza), un uomo (il Suicida) e un terzo personaggio (il Mondo), interpretati rispettivamente da Rossella Brescia, Gianni Rosato e Cesare Bocci, e materiali di repertorio dagli archivi della Santa Sede e dell’Istituto Luce, tra i quali risaltano le cosiddette visite dei “Venerdì della Misericordia”, gli incontri organizzati in modo insolito da Papa Francesco per l’anno giubilare della Misericordia (2015-2016). Film interessante perché girato da un laico, nonché ottimo direttore della fotografia, la cui estrema bravura risalta proprio negli inserti di finzione, fotografati in maniera magistrale. Un’opera che cerca di parlare a più gente possibile, trasversalmente, e ci riesce. Special Screenings. Voto: 7
Re-Creation (Jim Sheridan e David Merriman). Il film si ispira al caso dell’omicidio della regista francese Sophie Toscan du Plantier e immagina un processo mai celebrato, quello irlandese, contro il presunto colpevole, il giornalista Eion Bailey (Colm Meaney). Tutto ruota intorno alla giurata numero 8 (una dolente Vicky Krieps), unica voce fuori dal coro di colpevolisti, capeggiato dal giurato numero 3 (John Connors), più istintivo e tormentato. Va in scena la rilettura del classico La parola ai giurati di Sidney Lumet, ma in versione più inquieta. Al centro c’è non solo l’inafferrabilità della verità, ma anche la maniera in cui pregiudizi, memoria, desiderio e pressioni collettive possano plasmare la percezione del reale. Dal 76enne Sheridan, in collaborazione con Merriman, va in scena un dramma appena televisivo, ma estremamente potente. Dubitativo. Concorso Progressive cinema. Voto: 7
The toxic avenger (Macon Blair). Wilson Gooze, sfortunatissimo addetto alle pulizie di una azienda che con i suoi eccessivi rifiuti tossici sta distruggendo la cittadina statunitense di (Sain)t Roma, scopre di avere un tumore cerebrale allo stadio terminale, anche se una cura ci sarebbe. Purtroppo il suo piano assicurativo non prevede il costosissimo farmaco. Recatosi a chiedere aiuto in prima persona al direttore di quella fabbrica (un mefistofelico Kevin Bacon), finisce in una vasca contaminata da liquami tossici che lo trasformeranno in un eroe tossico, deforme, ma indistruttibile… Se la trama (e la Troma) vi ricordano qualcosa, non stiamo parlando di …Lo chiamavano Jeeg Robot, bensì dell’omonimo film che la Troma, casa di produzione indipendente fondata da Lloyd Kauffman e Michael Hertz, qui produttori esecutivi, fece uscire negli anni ottanta, dando luogo anche ad una nutrita serie di sequel. In questo reboot decisamente mainstream, il Vendicatore Tossico parte già avvantaggiato, essendo interpretato dal celeberrimo attore Peter Dinklage, affetto da nanismo. Lo splatter si mantiene incredibilmente a livelli elevati e il divertimento è assicurato, mentre la violenza è talmente sopra le righe da risultare innocua, ma mai stucchevole. Più che la pellicola in sé, incuriosisce che cosa l’abbia portata ad essere selezionata in un Festival “serio” come questo e non in altri più specializzati a livello nazionale e ad essere distribuito (a breve) nel nostro paese dopo due anni dalla sua realizzazione. Veramente tossico. Grand Public. Voto: 7
Ultimo schiaffo (Matteo Oleotto). Petra e June sono due fratelli che vivono in uno sperduto paesino del Friuli più estremo. Le condizioni di vita per i due giovani sono sempre più al limite e, all’ennesimo, triste Natale, si domandano se ci sia una possibile via di fuga per entrambi. Quando scompare il cane Marlowe, di proprietà di un’anziana signora del luogo, sembrano intravedere una possibilità di salvezza, anche al limite della legalità… Matteo Oleotto racconta una specie di Fargo dei fratelli Coen del Nord-Est nazionale, con due buffi e dolce-amarognoli protagonisti, anche un po’ sfortunati, e tutta una serie di curiosi personaggini che fanno da contraltare alle loro vicende. Il film, garbato e godibile, ha il retrogusto delle commedie all’italiana degli anni sessanta – I mostri su tutte – e si lascia vedere con piacere dall’inizio alla fine. Il Friuli-Venezia Giulia è una perfetta terra di nessuno, al pari dell Minnesota innevato di Fargo. Coeniano. Panorama italia. Voto: 7
Vie privée (Rebecca Zlotowski). La nota psichiatra Lilian Steiner (Jodie Foster) avvia un’indagine privata sulla morte per suicidio di una delle sue pazienti, nella convinzione che sia stata assassinata da uno dei suoi bizzarri congiunti… Commedia gialla, come solo i francesi sanno farla, interpretata da una star di Hollywood, la quale, nessuno sa, parla fin dall’infanzia un francese molto fluente per aver frequentato fin da allora scuole bilingue. Supportata da un cast di prim’ordine, che include Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric, Aurore Clément e Irène Jacob, Foster riesce ad essere più spiritosa che mai, lasciandosi trascinare in un turbinio di suggestioni, anche erotiche, che la rendono anche sexy. Una garbata commedia, il cui finale non possiamo spoilerare, che saprà intrattenere il pubblico che vorrà provarla. Psico-drammatico. Grand public. Voto: 7
40 secondi (Vincenzo Alfieri). Tratto dal libro omonimo di Federica Angeli, il film di Vincenzo Alfieri racconta la tragica vicenda di Willy Duarte Monteiro, giovane di origini capoverdiane ucciso nel poco tempo del titolo a Colleferro (RM) il 6 settembre 2020 mentre cercava di difendere un amico durante una banale rissa. Diviso in quattro capitoli, che esplorano la vicenda secondo il punto di vista di ogni personaggio principale, il film cerca in questo modo di essere il più obiettivo possibile. Il peso dell’istant movie, a soli cinque anni dal fattaccio, è evidente ed anche l’artificio delle diverse voci è ormai scontato e abusato, benché l’unico modo per raccontare una storia del genere senza impantanarsi nell’ovvio. Gli attori, professionisti e non, danno il loro notevole contributo, ma la pellicola si perde in quel voler denunciare, ma non averne il coraggio fino in fondo, cambiando i nomi ai protagonisti per evitare beghe, ma mantenendoli nelle didascalie finali. Devastante, nel mezzo dei titoli di coda, il pubblico ministero che ricorda ad uno dei due veri fratelli Bianchi, il quale cercava di giustificarsi recitando a menadito il pistolotto verosimilmente suggeritogli dall’avvocato, che “Willy è morto”: più forte di tutto il film. Istantaneo. Concorso Progressive cinema. Voto: 6 e ½
Amoeba (Tan Siyou). In una scuola femminile autoritaria, quattro adolescenti emarginate formano una banda segreta. Ma il loro goffo tentativo di ribellione rivela desideri sepolti e la violenza silenziosa di che cosa significhi crescere nella Singapore contemporanea… Debutto nel lungometraggio della regista, originaria di Singapore, il film parte in maniera interessante, ma presto sembra sgonfiarsi e perdersi per strada. Le giovani interpreti cercano di tenerlo insieme, ma alla fine il risultato è alquanto vacuo. L’argomento della gang sembra essere stato insostenibile non solo per la società e per le ragazze… Alice nella Citta Concorso/Opera prima. Voto: 6 e ½
Anemone (Ronan Day Lewis). Nord dell’Inghilterra. Un uomo (Sean Bean) parte dalla sua casa di periferia per raggiungere il fratello (Daniel Day-Lewis), allontanatosi da tempo dal mondo. In realtà quest’ultimo nasconde un segreto, motivo per cui si è ritirato in eremitaggio, legato ai tempi in cui militava nell’IRA… Scontro/incontro tra due mattatori di alto calibro, il film è un’opera troppo parlata, di impianto squisitamente teatrale, girata con un’ottima fotografia (di Ben Fordesman), che però non riesce a convincere fino in fondo. Il melodramma è sempre in agguato e il regista, benché figlio d’arte, è troppo acerbo per riuscire a dominare una sceneggiatura scritta a quattro mani con il padre. Unico motivo per vedere la pellicola? Il ritorno sulle scene di Daniel Day-Lewis dopo otto anni di assenza. Melodrammatico. Alice nella città/Concorso. Voto: 6 e ½
Queens of the dead (Tina Romero). A Brooklyn un gruppo di drag-queen si trova a doversi difendere da un attacco di famelici zombi, tra paura del palco, fughe, tradimenti, ripicche… Tina, per il suo debutto nel lungometraggio, segue le orme paterne (o forse le ribalta e dissacra volutamente) in questo film su personaggi “en travesti” contro morti viventi. L’idea è molto buona e il tono è grottesco, basti pensare al cameo di Tom Savini nel ruolo dello sprovveduto sindaco cittadino o alla battuta che suona più o meno così: “Ma che siamo in un film di George Romero?!”. Quello che manca, ça va sans dir, è la paura, ma non sarebbe un problema se ad un certo punto la pellicola non prende la piega di una soap queer, divertente sì, ma anche banale e a tratti stucchevole. Ma ora che la figlia d’arte ha rotto il ghiaccio, ci aspettiamo da lei qualcosa che omaggi veramente, senza troppi rimpianti, l’ingombrante figura paterna. Queer of the dead? Freestyle Film. Voto: 6 e ½
Öldürdüğün Şeyler/The things you kill (Alireza Khatami). Ali (Ekin Koç), tornato in Turchia dopo aver vissuto e studiato per anni negli USA, si trova a riaffrontare in maniera drammatica la sua famiglia disfunzionale. Mentre il suo matrimonio è in crisi per la difficoltà ad avere figli, si insinua in lui (e non solo) il sospetto che la madre, appena morta accidentalmente in casa possa essere uccisa dal padre violento. Nel frattempo l’arrivo del misterioso Reza (Erkan Kolçak Köstendil) nella casa di campagna, innesca un rapporto ambiguo tra i due… Thriller filosofico – in una lezione universitaria Ali spiega come “tradurre” possa significare anche “uccidere” una versione precedente per farne nascere un’altra – e serrato: il montaggio estremamente ellittico che, se da una parte eleva il ritmo, richiede molta attenzione allo spettatore per seguire l’intera vicenda e non confondersi. Labirintico. Concorso Progressive cinema. Voto: 6 e ½
Die my love (Lynne Ramsay). Ritiratasi nella grande casa di campagna che lo zio ha lasciato a Jackson (Pattinson), il suo compagno, Grace (Lawrence) cerca di dedicarsi alla scrittura del romanzo di una vita. Ma resta incinta e, mentre le gocce di latte iniziano a mescolarsi letteralmente alle gocce di inchiostro, la depressione post-partum la travolge, insieme all’intera sua famiglia… Simbolico e ambizioso, il film, tratto dal libro dell’argentina Ariana Harwicz, è una autentica via crucis per la sua interprete principale, che si infligge continuamente sofferenze corporali, come anche per lo spettatore medio, il quale difficilmente riuscirà a sopportare quanto mostrato sullo schermo. Tutto fino al metaforico fuoco purificatore finale. Tutto già visto, sostenuto inutilmente da un grande cast al quale si aggiungono due anziani Sissy Spacek e Nick Nolte. Conflittuale. Best of 2025. Voto: 6
Dreams (Michel Franco). Il giovane e talentuoso ballerino messicano Fernando (Isaac Hernández) arriva a San Francisco, dove diventa l’amante di Jennifer (Jessica Chastain), filantropa – finanzia l’accademia da lui frequentata – attivista ed erede di un impero industriale milionario. Il loro rapporto però sarà destinato ad evolvere nei modi più imprevedibili… Scene di lotta di classe tra Città del Messico e San Francisco in un film in cui lo spirito critico del regista messicano appare meno affilato che altrove – come ad esempio nel bellissimo Sundown– ed anche l’allegoria dei rapporti (di forza e sudditanza) tra USA e Messico suona come troppo telefonata e retorica. Da salvare è sicuramente l’interpretazione ad alto tenore erotico di Jessica Chastain, ma nulla più. Spuntato. Best of 2025. Voto: 6
Due cuori e due capanne (Massimiliano Bruno). Lei, femminista convinta, odia gli uomini, lui, maschilista inconsapevole, preferisce non avere seccature. Iniziano a frequentarsi per poi scoprire di lavorare nella stessa scuola, lui come preside (raccomandato) e lei come insegnante. Come se non bastasse, lei, al di là di ogni aspettative resta incinta… Commedia leggera e fresca che oscilla tra il papocchio e il trendy, tutto suo malgrado, con qualche personaggio interessante, ma anche con molte, troppe banalità, come la professoressa alternativa amata da tutti e il preside da tutti odiato, come il revenge porn buttato là solo per far pensare allo spettatore: “Hai visto Bruno com’è impegnato?!”, e altre furbizie del genere. Un merito? Si lascia vedere senza troppe pretese! Alice nella Città Panorama Italia
Fuori la verità (Davide Minnella). Una famiglia come tante partecipa al nuovo quiz televisivo che dà il titolo al film, durante il quale dovranno rispondere a domande su loro stessi sempre più personali e compromettenti, sottoponendosi al vaglio di una odierna e sofisticata macchina della verità. Gli scheletri nell’armadio non mancano, anche se non tutti i componenti ne sono al corrente. Riusciranno a non implodere?… Seconda regia di Minnella dopo il riuscitissimo La cena perfetta, questa nuova pellicola si caratterizza senz’altro per l’originalità dell’idea: un pretesto inedito per raccontare le stesse cose che hanno già portato sullo schermo tanti altri film, da La famiglia e C’eravamo tanto amati di Ettore Scola a Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese. Fuori la verità però, come già il titolo potrebbe accennare, è un film troppo gridato, troppo esagitato e affannato, un po’ vittima dei suoi tempi. Gli attori danno il loro meglio, ma, alla fine del timing, la pellicola non sembra neanche essere iniziata. Grand public. Voto: 6
Good boy (Ben Leonberg). Todd, malato grave, si è ritirato nella casa di suo padre, suicidatosi in circostanze poco chiare, insieme al suo cane Indy. L’animale comincia però ad avvertire strane presenze… Basato proprio sulle domande:”Perchè i cani a volte fissano gli angoli vuoti, abbiano senza motivo e si rifiutano di scendere nel seminterrato?”, il film non è altro che un cortometraggio allungato al minimo sindacale per farne un lungo, diventando così un’occasione sprecata. Confuso e poco suggestivo, ha solo il pregio di essere incentrato sul punto di vista del protagonista a quattro zampe: gli umani non sono mai inquadrati in volto, almeno finché sono vivi. Neanche il debole colpo di scena finale riesce a risollevare le sorti del film. Diluito. Alice nella città/Fuori concorso. Voto: 6
Gli occhi degli altri (Andrea De Sica). La vicenda del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino che il 30 agosto 1970 uccise la seconda moglie Anna Fallarino e il di lei giovane amante, Massimo Minorenti, a colpi di fucile, per poi suicidarsi subito dopo. Tra filmini amatoriali (nei quali la lei di coppia appare sempre più contrariata e insofferente) e orge, il marchese e la sua signora sono stati i primi swingers “noti” ai quali è andata male, poiché in sostanza non ressero. Il fatto di cambiare i nomi, denota anche qui lo scarso coraggio del Cinema italiano e, così facendo, non centra la coppia, facendone due persone qualunque, che comunque due persone qualunque non sono. Filippo Timi e Jasmine Trinca sono anche credibili, ma quello che manca nella pellicola è il coinvolgimento dello spettatore, chiamato ad essere voyeur e basta, come un qualsiasi amico della coppia, ma senza identificazione alcuna. Formalmente ineccepibile, il film, che conferma e al tempo stesso sconferma le doti di Andrea De Sica, pecca per freddezza e crolla sotto il suo steso peso. Imbarazzante la sua presenza nel concorso ufficiale, ma non certo per lesa morale. Concorso progressive cinema. Voto: 6
La vita va così (Riccardo Milani). Anno 2000 appena iniziato. Una immobiliare del Nord sta comprando gli ultimi lotti di terra nel Sulcis, in Sardegna, per costruire un gigantesco resort a cinque stelle sul mare che darà lavoro a migliaia di abitanti della zona. Se non fosse che Efisio Mulas, un pastore che è solito pascolare le proprie mucche in spiaggia, si ostina a non voler vendere la sua proprietà, quell’ultimo puntino rosso sulla mappa dei costruttori. Le offerte, partite in lire, raggiungono in euro cifre a sei zeri, ma l’anziano per circa dieci anni continua a dire no… Dopo essersi auto-proclamato cantore delle periferie romane e, una volta esaurite queste, assurto ad aedo della provincia abruzzese, Riccardo Milani, ormai senza la compagna Paola Cortellesi, che ha iniziato con successo una vita cinematografica autonoma, anch’ella dietro la macchina da presa, prende le difese della Sardegna. Il format è più o meno lo stesso e il regista va sul sicuro, mantenendo anche la protagonista del precedente film, qui in versione isolana. Sono queste le spine nel fianco di quella che resta ad ogni modo una commedia garbata e godibile, ma troppo ruffiana e, soprattutto, troppo lunga, nelle sue due ore abbondanti, non facendosi mancare nulla. Gli interpreti, compresi il vivacissimo Giuseppe Ignazio Loi, un usuale Diego Abatantuono, un’abituale Virginia Raffaele e un Aldo Baglio che fa, sì, Aldo Baglio, ma lo fa bene, si prestano volentieri all’impresa. Come film d’apertura della ventesima Festa del Cinema di Roma, ci aspettavamo qualcosina di più! Grand public. Voto: 6
Stella gemella (Luca Lucini). Stella (Martina Gatti) vive in provincia, il suo rapporto con Achille (Matteo Olivetti) è sereno, hanno un bambino e un’azienda agricola. Una sera però Stella decide di prendersi una pausa e va a trovare un’amica a Roma. Qui trascorre una notte brava con l’elegante Gil (Jimi Durotoye), uno chef di origine africana. Dopo qualche tempo, quando ormai la serata è poco più di un ricordo, Stella partorisce due gemelli, dei quali uno, per un fenomeno rarissimo, noto come fecondazione eteroparentale, è nero… Minimi storici per la commedia (all’)italiana, già a partire dal titolo, pessimo, che allude alla protagonista e alla sua doppia gravidanza (!). Non bastano le isteriche madri/suocere Margherita Buy e Laura Morante e i loro storici pedigree a giustificare e benedire una sceneggiatura fiacca e senza idee, così come non bastano giovani attori volenterosi come quelli del cast. Veramente uno dei punti più bassi del cinema italiano degli ultimi anni. Inutile. Grand public. Voto: 5
CONCORSO PROGRESSIVE CINEMALa giuria presieduta dall’attrice, sceneggiatrice, autrice e regista Paola Cortellesi e composta dal regista e sceneggiatore finlandese Teemu Nikki, il regista e sceneggiatore britannico William Oldroyd, lo scrittore e illustratore statunitense Brian Selznick e l’attrice franco-finlandese Nadia Tereszkiewicz, ha assegnato i seguenti riconoscimenti ai film del Concorso Progressive Cinema:
– Miglior Film: LEFT-HANDED GIRL (LA MIA FAMIGLIA A TAIPEI) di Shih-Ching Tsou
– Gran Premio della Giuria: NINO di Pauline Loquès
– Miglior regia: WANG TONG per Chang ye jiang jin (Wild Nights, Tamed Beasts)
– Miglior sceneggiatura: ALIREZA KHATAMI per The Things You Kill
– Miglior attrice – Premio “Monica Vitti”: JASMINE TRINCA per Gli occhi degli altri
– Miglior attore – Premio “Vittorio Gassman”: ANSON BOON per Good Boy– Premio speciale della Giuria: al cast del film 40 SECONDI
MIGLIOR OPERA PRIMA POSTE ITALIANE
La giuria presieduta dal regista e produttore argentino Santiago Mitre con il regista e sceneggiatore britannico Christopher Andrews e l’attrice italiana Barbara Ronchi ha assegnato – fra i titoli delle sezioni Concorso Progressive Cinema, Freestyle e Grand Public – il Premio Miglior Opera Prima Poste Italiane al film:
– TIENIMI PRESENTE di Alberto Palmiero (sezione Freestyle)
È stata inoltre assegnata una Menzione speciale agli attori Samuel Bottomley e Séamus McLean Ross per California Schemin’ di James McAvoy.
PREMIO MIGLIOR DOCUMENTARIO
Per la prima volta quest’anno, è stato conferito un premio alle opere che esplorano il cinema del reale. La giuria presieduta dal regista, direttore della fotografia, montatore e produttore rumeno Alexander Nanau e composta dal regista e sceneggiatore Santiago Maza e dalla produttrice Nadia Trevisan ha assegnato – fra una selezione di titoli in programma nelle sezioni Concorso Progressive Cinema e Proiezioni Speciali – il Premio Miglior Documentario al film:
– CUBA & ALASKA di Yegor Troyanovsky (Proiezioni Speciali)
È stata inoltre assegnata una Menzione speciale al documentario Le Chant des forêts di Vincent Munier.
PREMIO DEL PUBBLICO TERNA
Fra i titoli del Concorso Progressive Cinema, gli spettatori hanno assegnato il Premio del Pubblico Terna al film:
– ROBERTO ROSSELLINI – PIÙ DI UNA VITA di Ilaria de Laurentiis, Andrea Paolo Massara, Raffaele Brunetti
Gli spettatori hanno espresso il proprio voto al termine della proiezione ufficiale e della prima replica di un film, attraverso il QR Code posizionato all’uscita della sala.
I PREMI ASSEGNATI DALLA FESTA DURANTE LA VENTESIMA EDIZIONE
Nei giorni scorsi, la ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma ha assegnato i seguenti riconoscimenti:
– Industry Lifetime Achievement Award a LORD DAVID PUTTNAM
– Premio alla Carriera a RICHARD LINKLATER
– Premio alla Carriera a JAFAR PANAHI
– Premio Master of Film a EDGAR REITZ
– Premio Progressive alla Carriera a NIA DACOSTA
La Regione Lazio ha assegnato il premio “Lazio Terra di Cinema” a CAN YAMAN
MY DAUGHTER’S HAIR di Hesam Farahmand MIGLIOR FILM ALICE NELLA CITTÀ 2025
Menzione speciale a LA PICCOLA AMÉLIE di Liane-Cho Han e Maïlys Vallade
“ANEMONE” di Ronan Day-Lewis MIGLIOR OPERA PRIMA
A 2 CUORI E 2 CAPANNE di Massimiliano Bruno
il PREMIO DEL PUBBLICO al Miglior Film del Panorama Italia
Ad ADALGISA MANFRIDA i premi RB CASTING e U.N.I.T.A.
come MIGLIOR GIOVANE INTERPRETE per il film “Ultimo schiaffo”
Premio per il MIGLIOR CORTO INTERNAZIONALE a RAGE di Fran Moreno Blanco e Santi Pujol Amat
PREMIO RAFFAELLA FIORETTA per il miglior corto del Panorama Italia a BRATISKA di Gregorio Mattiocco
Dal nostro inviato Paolo Dallimonti.



