“Oltre lo specchio Milano film Festival” intende perlustrare i generi, recuperarne la loro valenza, politica e sociale, non unicamente di intrattenimento e ludica. Quest’anno, per la VII edizione, il festival si svolgerà a Milano dal 6 al 12 novembre presso RUFA – Piazzale Lugano 19, e darà ampio spazio ad incontri collaterali, propedeutici alle proiezioni. Le pellicole verranno presentate in tre diverse sezioni: un concorso internazionale con film provenienti da tutto il mondo, un fuori concorso con titoli maggiormente mainstream e una sezione newcomers dedicata ai registi esordienti. Questo anche per dare maggiore continuità rispetto all’altro festival organizzato dal Cineforum Robert Bresson, Asian Film Festival, giunto alla ventiduesima edizione. Il cinema di genere è vivo, importante, forse anche più di quello d’autore. “Oltre lo specchio Milano Film Festival” vuole intercettare un pubblico giovane, variegato, attivo, in grado di offrire stimoli sempre nuovi.
Can I get a witness? (Anne Marie Fleming). In un futuro – che speriamo il più remoto possibile – non sono bastate le auto elettriche a salvare il pianeta Terra. Per proteggere il proprio mondo, gli esseri umani hanno dovuto limitare le loro vite a non più di cinquant’anni. Kiah, nel suo primo giorno di lavoro, gira insieme a Daniel, in qualità di testimone (disegna gli ultimi istanti di vita dei cinquantenni), mentre si reca a consegnare dei dispositivi che porranno appunto fine alle vite dei destinatari… Straordinario film canadese che parte in medias res, facendoci capire via via, tramite gli eventi narrati, un tassello alla volta, che cosa stia davvero accadendo: dopo i primi minuti in cui si fatica a capire la storia, ci si ritrova risucchiati in questa toccante distopia. Una sceneggiatura di ferro per questa sorta di coming-of-age ambientato in un mondo in cui la morte non è più solo un evento naturale, ma è diventato qualcosa di necessario, un vero e proprio “salva-vita”. La delicatezza della regista, che usa le animazioni dei disegni di Kiah per commentare ed arricchire le immagini, riesce a trasformare qualcosa apparentemente aberrante in una divertente commedia sentimentale ecologista, dal retrogusto amarognolo. La fuga di Logan 2.0. Concorso. Voto: 8 e ½
Portal to hell (Woody Bess). Dunn (Trey Holland), è uno sfortunato addetto al recupero crediti che, ogni giorno, viene vessato e minacciato dalle persone che per lavoro si trova a dover contattare telefonicamente. La sfiancante routine quotidiana, affiancata alla pietà per alcune situazioni difficili da ignorare, viene interrotta da una bizzarra scoperta: nella lavanderia che frequenta abitualmente, l’oblò di una lavatrice si è trasformato in una vera e propria porta dell’Inferno. Come se non bastasse, un bizzarro demone gli offre, in cambio della vita di una caro vicino affetto da un cancro allo stadio terminale, di condurre all’aldilà tre persone a sua scelta… Tra gustosa commedia e horror, il debutto del regista racconta questo coming-of-age pieno zeppo di questioni filosofiche, che la commistione di generi e la tendenza al grottesco enfatizzano piuttosto che limitare. Una pellicola davvero interessante e divertente, impregnata di humor nero, che, partendo da un ipotetico livello di cazzeggio basilare evolve invece verso un’opera più solida e costruita, lasciando decisamente sorpresi! Transdimensionale. Newcomers. Voto: 8
Strange harvest – Occult murder in the inland empire (Stuart Ortiz). Già co-regista di ESP – Fenomeni paranormali, Ortiz ci accompagna in questo affascinante mockumentary che oscilla tra realtà e finzione, per raccontare le gesta di un serial killer che, in teoria, avrebbe terrorizzato San Bernardino, in California, per circa due decenni. Se solo fosse vero… Un racconto inverosimile che sembra più vero quando si spinge verso l’incredibile e che appare mera finzione quando invece vorrebbe mostrare qualcosa di più concreto. Un vero gioco cinematografico che cattura lo spettatore accompagnandolo in una storia dai contorni fantastici e dagli aspetti spesso autenticamente raccapriccianti. Ogni dettaglio è stato curato maniacalmente nel tentativo, sempre più dichiarato di convincere l’audience della veridicità dei fatti narrati. Il risultato è un’opera di grande originalità, che inquieta proprio per la sua indeterminatezza e per l’originalità già della storia in sé e per il modo in cui viene gestita e restituita allo spettatore. Fintamente vero! Concorso. Voto: 8
A grand mockery (Adam C. Briggs e Sam Dixon). Un lungometraggio interamente girato in Super8, cosa che, nel 2024, già di per sé rappresenta un’anomalia. Poi la storia: Josie (cui presta il volto uno dei due stessi registi, Sam Dixon) è, non a caso, un uomo privo di una vera direzione e, per tutto il film lo vediamo girovagare tra gli angoli più sporchi e dimenticati di Brisbane; nel corso di questa sua incontrollabile deriva motoria, egli subisce una progressiva involuzione/deformazione, sia fisica che mentale, attivata dall’alienazione di cui il sottobosco cittadino permea l’individuo. Un road-movie “cimiteriale”, un film volutamente sporco e anarchico, che ricorda, anche molto per la forma, i primi lavori di John Waters, come Pinlk flamingos, e in parte Gaia di Jaco Bouwer, diventando un viaggio, dentro e fuori la mente del protagonista e lungo gli spazi australiani con il loro potere “trasfromativo” su chi li attraversa. Una pellicola unica e imperdibile, con una colonna sonora raffinatissima, nella quale spicca, in varie versioni, il “Salut d’amour” di Edward Elgar. Catartico. Concorso. Voto: 7 e ½
An taibshe/The ghost (John Farrelly). Ambientato nel 1852, in una tranquilla foresta, il film, il primo interamente in lingua irlandese, ci presenta Éamon e sua figlia Máire, impegnati come custodi di una remota e deserta magione, che, con l’inverno alle porte, si trasforma in una prigione di solitudine e disperazione. Come se non bastasse, delle oscure presenze sembrano abitare la casa prima di loro… Un film da camera, con i soli esterni adiacenti alla casa, impreziosito dalla fotografia, curata dallo stesso regista insieme a Ross Power, che restituisce spesso l’illuminazione a lume di candela. Il regista conosce bene le regole dell’horror, fin da quando presenta i personaggi all’inizio e, se anche la mente va a Stanely Kubrick ed al suo Shining, egli segue una strada personalissima, curando anche un montaggio serratissimo e, a tratti, sperimentale. Tra visioni, segreti poco confessabili e l’esplorazione coraggiosa del dolore, Farrelly ci regala un gioiellino, un film potente e non sempre sopportabile: una vigorosa metafora della carestia irlandese che aveva appena colpito il Paese nell’epoca in cui il film è situato. Raggelante. Newcomers. Voto: 7 e ½
Dirty boy (Doug Rao). Lo schizofrenico Isaac vive in una famiglia altamente disfunzionale, una sorta di setta che, scoprirà. essersi macchiata di crimini diabolicamente efferati che coinvolgono anche lui. Scoprirà anche come, in vari modi, la sua “famiglia” si sia approfittata di lui… Film impossibile da raccontare, che oscilla tra il più puro e brillante humour nero e il più sofisticato humour britannico, filtrati attraverso la lente del Surrealismo. A sfruttare la condizione psichiatrica del protagonista sono sia la setta che lo stesso regista, il quale utilizza l’ambiguità a fini drammaturgici. Difficile a tratti da seguire, proprio per l’abile struttura narrativa costruita intorno ad Isaac, tra infinite citazioni bibliche, a partire dallo stesso suo nome, il film si rivela un’autentica sorpresa, sfociando in qualcosa di originale e raramente visto prima sullo schermo, un horror assai atipico, ma decisamente ben girato. L’ottimo Stan Steinbichler, nel doppio ruolo delle due personalità del protagonista, è affiancato da una presenza che molti fan del fantasy/horror: Alice Lucy, la Heidi di Mad Heidi. Disturbante. Fuori concorso. Voto: 7 e ½
Los ahogados/Deep end (Juan Sebastian Jacome e Victor Mares). La facoltosa famiglia di Marcela, brillante scrittrice, sposata con Tomas, un chirurgo oculista di successo, vede crollarsi tutto addosso quando una loro domestica viene trovata morta nella piscina della loro villa. Anche se i sospetti sembrano convergere su Roberto, la guardia giurata addetta alla sicurezza dell’abitazione, Marcela, insieme a suo marito e sua figlia, iniziano ad essere additati dall’opinione pubblica come i principali responsabili dell’accaduto… Brillante thriller psicologico che segue varie piste, appunto per sviare lo spettatore, sfiorando anche il soprannaturale. Un film co-prodotto tra Ecuador e Uruguay che, alla fine, si rivela anche politico, sia poiché denuncia le fragilità delle alte borghesie sudamericane, sia perché, senza spoilerare troppo, i poveri cristi devono pagare il conto ai potenti, salvandoli sempre. Una pellicola che, tra silenzi obbligati e non-detti scontati, flirta con i giochi degli sguardi e pure con la letteratura, cortocircuitando gli eventi mostrati sullo schermo con quelli narrati dalla protagonista nei suo romanzi. Senza respiro! Newcomers. Voto: 7 e ½
Shi Jie Ri Chu Shi/All quiet at sunrise (Zhu Xin). Diverse storie si intersecano in questo raffinato film cinese: quella di Marko che sta scrivendo una tesi su Lucy, il più antico esemplare di ominide ritrovato sulla Terra, la quale avrebbe pronunciato la prima parola, una sorta di “nonna umana universale”; quella di sua madre, che si fa sempre più presente nella sua vita, e di sua nonna, che rivive nei racconti di lei; della sua professoressa e della propria figlia misteriosamente scomparsa nei boschi. Amore, rapporti tra genitori e figli, passato e presente riverberano in un cortocircuito gigantesco che spazia da Kubrick (2001: Odissea nello spazio) a Apichatpong Weerasethakul (Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti) per un film che riesce a parlare a tutti grazie ad un linguaggio trasversale che non esclude nessuno. Universale. Newcomers. Voto: 7 e ½
The occupant (Hugo Keijzer). Abby è una geologa che ha lavorato per mesi in giro per il mondo al fine di procurarsi il denaro necessario a tentare di curare la sorella Beth, malata in fase terminale. Quando, una volta trovata una pietra che potrebbe garantirle i soldi necessari, l’elicottero su cui è a bordo precipita, uccidendo il pilota, si ritrova sola e sperduta nei ghiacci del Caucaso giorgiano. Verrà contattata via radio da un uomo misterioso che potrebbe essere la sua salvezza… o forse no. Interessante film olandese, essenzialmente un survival-movie, che ad un certo punto prende inaspettatamente un piega fantastica. Il tema è quello dell’accettazione della malattia e della possibile perdita di una persona cara e anche quello dell’elaborazione del lutto: senza voler spoilerare, alla fine Abby preferirà la dura realtà ad una finzione rassicurante. La tensione è mantenuta sempre alta da una scrittura molto attenta. Un gioiellino da recuperare. Concorso. Voto: 7 e ½
What happened to Dorothy Bell? (Danny Villanueva jr.). Ozzy Gray (Asya Meadows), sopravvissuta da bambina ad un misterioso tentativo di omicidio da parte di sua nonna, portandone ancora sul volto i segni, per tutta la vita ha cercato di scoprire le arcane origini di quel gesto, continuando anche a sottoporsi ad una psicoterapia online. Ma quando inizia ad approfondire, scoprirà una sinistra maledizione che minaccia di colpire anche lei, stavolta in maniera ancora più letale… Horror originale e davvero spaventoso, quasi in forma di found footage, poiché ripreso dalla telecamera sempre accesa della protagonista e da quelle di sicurezza della biblioteca in qui si svolge in gran parte. Tra letteratura e cinema – il vero protagonista e uno “psudobibilion” maledetto, una sorta di Necronomicon – il film ci accompagna nella progressiva discesa agli inferi di Ozzy, con una serie di macabri segnali premonitori, come ad esempio le mosche che iniziano a girare intorno. Alla ricerca di una verità che non verrà completamente esplicitata, ma sarà ampiamente manifesta, con una chiusa che cita dichiaratamente … e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà di Lucio Fulci. Quando molte idee sopperiscono alla mancanza di mezzi. Necroforo. Fuori concorso. Voto: 7 e ½
Wu Jin Zhi Lü/The journey to no end (Chen Xiang). In un futuro devastato dal collasso ambientale mondiale, l’umanità è sospesa tra due mondi: quello reale, ormai decadente, e il “New World”, una dimensione digitale dove è possibile caricare la propria coscienza e scegliere i compagni di viaggio per una nuova esistenza artificiale. In bilico tra questi due mondi vive Cheng Qi, sedicenne che, dopo la fuga del padre nel mondo virtuale, intraprende un viaggio per ritrovare la madre che lo ha abbandonato anni prima. La sua ricerca diventa presto un percorso interiore, un cammino di formazione e smarrimento, dove la linea che separa memoria e simulazione, desiderio e verità, si fa sempre più labile… Interessante road-movie distopico dalla Cina, desolato e desolante, che tocca importanti tematiche ambientali, pur se in maniera meno delicata di Can I get a witness, con cui però ha molto in comune. Ad una devastazione che sembra la stessa dell’incipit di 28 giorni dopo di Danny Boyle, tra palazzi-labirinto e giganteschi androni disabitati, si contrappongono gli esagerati – e falsi – colori pastello del grottesco “New World”. Fantascienza introspettiva – la migliore! – che guarda al futuro per esplorare meglio l’animo umano. Caricato. Concorso. Voto: 7 e ½
Electric child (Simon Jaquemet). L’informatico Jason sta lavorando ad una avveniristica forma di Intelligenza Artificiale, capace di abitare, come fosse un essere umano, un mondo sintetico in tutto e per tutto simile al nostro. Il figlioletto dell’uomo però è gravemente malato e destinato a morire a causa di un’anomalia genetica. Per poter salvare il bambino, Jason decide di accettare una specifica richiesta della macchina: quella di trasferirsi nella realtà, in cambio della promessa di una cura… Interessante primo film in lingua inglese di un regista svizzero, il film tratta l’AI in maniera decisamente originale, rappresentandola come un adolescente sperduto in una sorta di isola selvaggia. Ma rifugge scenari apocalittici, a parte nel pre-finale, quando, spaesata, “debutta” nel nostro mondo, concentrandosi più sulla effettiva umanizzazione della stessa e sulla relativa utilità nella nostra società. Uno spunto di riflessione decisamente spiazzante, molto ben diretto e altrettanto ben interpretato. Sociale. Concorso. Voto: 7
Cô Dâu Ma/The bride (Lee Thongkham). Una giovane sposa, alla soglia del matrimonio, inizia ad avere delle sinistre visioni che la metterebbero in guardia sulle non buonissime intenzioni della famiglia del marito nei suoi confronti: potrebbe essere solo l’ultima di una lunga serie di aspiranti mogli svanite nel nulla… Una pellicola tailandese che ricorda molto da vicino l’occidentale Finché morte non ci separi di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett del 2019, anche se qui l’ambientazione orientale danno quel tocco di originalità in più al film. La storia è molto interessante e ha un plot-twist verso la fine che la riscatta, nel quale anche la vittima predestinata nasconde un segreto. Tra visioni, incubi e flashback, Cô Dâu Ma si sviluppa e prende forma, non mancando di spaventare lo spettatore, col quale il regista non smette mai di giocare. Maledetto. Fuori concorso. Voto: 7
Da yu/The storm (Busifan). Un giovane orfano viene accolto da Daguzi, un uomo dal passato enigmatico, che lo ritrova alla deriva in un fiume. I due intraprendono un viaggio verso la Baia del Grande Drago, mossi dalla ricerca di un veliero nero, custode di un antico tesoro noto come Nuralumin Satin. Ma il loro cammino è costellato di mostri, maledizioni e di una trasformazione inesorabile che minaccia Daguzi, costringendo il giovane Bao a confrontarsi con oscure presenze… Un meraviglioso film d’animazione cinese, un vero e proprio kolossal, che non ha nulla da invidiare ai colleghi giapponesi e in particolare allo Studio Ghibli, che peraltro sembra omaggiare nella creazione dei personaggi, nella tavolozza dei colori e nella cura dei dettagli; anche se un occhio va anche alle tradizioni pittoriche cinesi La magia e i “mostri” sono anche qui sempre protagonisti, ma vengono affrontate anche tematiche universali come l’identità, il sacrificio e la ricerca della redenzione. Un’autentica sorpresa! Concorso. Voto: 7
The dutchman (Andre Gaines). Clay è un giovane uomo d’affari afroamericano, dilaniato dal proprio matrimonio che sta andando a rotoli e da una crisi identitaria personale, si trova incastrato in un gioco tra gatto e topo con un’ imprevedibile e misteriosa sconosciuta incontrata in metropolitana. Dovrà decidere se prendere finalmente in mano le redini della propria vita, o sprofondare negli abissi del malessere che lo sta dilaniando dall’interno… Metafora delle difficoltà degli afroamericani di successo a trovare un proprio posto all’interno della società statunitense, il film flirta con la psicoanalisi e la scrittura, quasi come se l’intera storia fosse scaturita dalla penna creativa del terapeuta che sta seguendo Clay e consorte allo sbando. Ed il suo fascino primario risiede proprio in quello, sfiorando il soprannaturale, ma senza farsi mai sopraffare da esso. Metateatrale. Concorso. Voto: 7
Lilly lives alone (Martin Melnick). Come recita il titolo, Lilly vive sola. Le fanno in realtà compagnia i fantasmi della sua mente: una figlia morta prematuramente e un padre difficile. Nel suo delirio psicotico, la casa, attraverso le proprie mura e le proprie stanze, si trasforma in vera e propria manifestazione fisica del suo tormento, con le sue porte chiuse e i suoi lucchetti. A farne le spese saranno i suoi anziani vicini e quello che sarebbe dovuto essere soltanto l’amante di una notte… Debutto nel lungometraggio dell’americano Maltin Melnick, che affronta un caso di difficile elaborazione del lutto – in maniera ben più cupa di The occupant – il film cambia più volte pelle, passando dal dramma all’horror, con un soprannaturale che fa spesso capolino, ma solo per depistare lo spettatore. L’orrore di Lilly lives alone è molto più reale, materiale, fisico, complice l’identificazione della casa con la stessa protagonista – due personaggi in uno – e per questo fa ancora più paura. Una messinscena da serie B però impedisce allo spettatore di condividere il vissuto di Lilly, lasciandolo fuori la porta, impedendogli di empatizzare con lei. Prova registica interessante, ma riuscita a metà. Delirante. Newcomers. Voto: 6 e ½
Salt along the tongue (Parish Malfitano). La famiglia della giovane Mattia, di origine italiana ed emigrata in Australia, ha da sempre visto nella cucina uno strumento per affermarsi in una nazione apparentemente ostile, senza però mai perdere quella connessione identitaria, fatta anche di vetuste credenze, superstizioni e ritualità. Alla morte della madre muore, verrà a trovarla la zia gemella, una donna indipendente e sui-generis. Ma antiche possessioni sembrano non voler lasciare in pace la famiglia… Secondo film da regista del produttore italo-australiano Parish Malfitano, il quale ripercorre le estetiche del giallo – omaggiando Mario Bava – con un film estremamente personale, tra malocchio e stregoneria, che verosimilmente hanno costellato almeno indirettamente la sua infanzia, con l’aggiunta di possessioni demoniache sui generis. Body horror e ghost story si innestano questa storia originalissima, che però non sempre riesce a colpire nel segno, restando prìgioniera della sua estetica forzata da B-movie. Intra-culturale. Concorso. Voto: 6 e ½
Salvageland (Lino S. Cayetano). Un poliziotto locale vicino alla pensione e il suo giovane figlio, un agente dai saldi principi, vengono travolti da una notte di brutale violenza quando una donna ferita — in fuga da un potente cartello criminale — cerca rifugio nella loro fatiscente sottostazione di polizia, situata in una cittadina desolata lungo una strada dimenticata. Padre e figlio si troveranno così costretti a un confronto estremo che metterà alla prova il loro legame, le loro convinzioni e la loro stessa sopravvivenza… Thriller neo-western, diretto da un regista dedito soprattutto alle serie TV, sul confronto morale e sul prezzo della giustizia, in una terra segnata da violenza e abbandono, dove gli uomini sono plasmati dal silenzio, dalla paura e da un ambiente ostile che li ha costretti a sopravvivere. Dopo un inizio avvincente, il film, nonostante l’uso di droni e di inquadrature sghembe, volte a sottolineare l’assurdità delle situazioni, nell’ultima parte finisce vittima di una relativa pochezza di mezzi, perdendosi tra personaggi troppo caricaturali (da serie TV) e sparatorie che sembrano fatte a base di miccette. Solo per estimatori irriducibili del cinema orientale! Concorso. Voto: 6 e ½
Dal nostro inviato Paolo Dallimonti



