Recensione n.1
L’ambientazione di Claude Chabrol è (ancora una volta) quella delle atmosfere patinate e delle ipocrisie borghesi dove i bei visi si concedono sempre più spesso ai cattivi giochi.
Ne Il Fiore del Male il soggetto principale è la colpa: la colpa che cerca il suo protagonista, il tempo che accompagna questa ricerca.
I cinque superstiti dell’intricato albero genealogico della famiglia Charpin-Vasseur riescono a coprire quasi tutti i possibili rapporti parentali esistenti: sono tra loro, moglie, marito, cugini, fidanzati, fratellastri, cognato, figliastro, figliastra, zia, sorella…
All’interno della famiglia un delitto è stato commesso durante gli anni torbidi della seconda guerra mondiale, nel periodo della resa dei conti fra i collaborazionisti con il nazional-socialismo tedesco e i partigiani. Quel delitto non ha trovato il suo colpevole, e questa mancanza viaggia come una minaccia carica di sventura.
Ma gli Charpin-Vasseur sanno bene come rispondere a quella minaccia, e cioè nel modo che gli è più consono: ipocrisia, distanza, ostentata inattaccabilità; tutti sanno, tutti sospettano, tutti fanno finta di niente, tanto alla fine l’importante è “fare almeno bella figura”.
Però l’albero è cresciuto con la sua colpa, e i rami devono ereditare fiori ammalati.
La cosa più interessante è che alla fine, il colpevole non viene riconosciuto dal tribunale severo della giustizia o dal rigore della verità: in questo senso la famiglia rimane inattaccabile, ben difesa nelle sue residenze opulente in stile liberty, e dalla forza della sua influenza.
No, alla fine, dopo tanti anni, è il colpevole stesso che si confessa, che corre imbraccio alla sua colpa e mette fine all’attesa che ha accompagnato i suoi anni: la resa dei conti, il riconoscimento della colpa, la voglia di far succedere qualcosa che scardini “il presente continuo”.
Ma nella tradizione e nella famiglia non c’è spazio per la libertà, per la fame di giustizia o per il riscatto personale: sarà ancora una volta il peso della famiglia a decidere…
La cosa che riesce meglio a Chabrol è la coerenza, la precisione e la compostezza dello stile col quale racconta la sua storia. Tutto è così preciso, scolpito, lento, immutabile. C’è tra i personaggi, il loro ambiente e le circostanze in cui si trovano, una assoluta sintonia e omogeneità: non una sbavatura, un’impennata (in questo senso è esemplare la scena del giardino d’inverno, dove anche le persone, gli Charpin-Vasseur, sembrano piante, monili, vasellame…).
E molto riuscita è anche la creazione delle due “false” piste che intersecano la vicenda principale: il volantino ingiurioso che attacca la famiglia, e la candidatura alle elezioni di Anne.
Nessuno ci dirà mai chi è realmente l’autore del libello, ma questo non importa, la cosa importante è che tutti i membri della famiglia considerano Gérard il plausibile responsabile.
Stessa cosa per la candidatura a sindaco di Anne: nessuno dubita della sua vittoria, ma la suspance serve da specchio vibrante per riflettere le fobie e l’insicurezza di Anne.
In questa suspance, nelle “false” tracce che ti depistano dalla vicenda principale per poi “colpirti” con il risvolto finale, c’è senza dubbio la miglior lezione di Hitchcock…
Invece alla fine del film rimani legato da un interrogativo: se l’assoluta precisione e compostezza di Chabrol gli abbia in verità impedito di guadagnare un punto di vista originale, autonomo rispetto alla storia che racconta. Vi è, tra lo stile e il contenuto, una assoluta coincidenza e sovrapponibilità che ti impedisce di distinguerli, di “sentire” l’occhio e gustare l’oggetto. Ma questa, forse, è anche la sua forza.
Il rigore della proporzione o il movimento della sproporzione?
A voi la scelta, e il gusto.
Andrea Scaccia
Recensione n.2
Due dinastie francesi alto borghesi, i Vasseur e gli Charpin, sono accomunate dalla simmetria del destino: rimasti entrambi vedovi, Anne e Gérard si risposano, ricomponendo un’unica famiglia con i figli Michèle e François. Vivono in una splendida villa in una città di provincia: lui dirige con successo una farmacia con laboratorio annesso, lei si dedica alla carriera politica. Il figlio François è appena tornato dall’America dove ha studiato, Anne va ancora all’università. Ad accudirli amorevolmente ci pensa l’anziana zia Line (una strepitosa Suzanne Flonne).
Ma sotto lo specchio immobile dell’acqua, si nascondono orrori di ogni genere: omicidi, incesto, molestie, tradimenti plurimi. Risalendo a ritroso nel tempo anche il collaborazionismo con i nazisti. La verità è rivelata per gradi, l’effetto di suspance non è dato dall’identificazione dell’omicida bensì dal fitto intrico delle relazioni fra i protagonisti che assumono spesso torbide tonalità. Pur mantenendo una facciata impeccabile: l’unica morale, se così la si può definire, è che tutto resti in famiglia, patrimonio compreso.
Ennesimo ritratto di borghesia in nero, la particolarità del film risiede tutta nel registro stilistico adottato. L’occhio del regista – memorabile la carrellata di apertura – rimane equidistante e imparziale. Del tutto assenti sia il giudizio etico sia il compiacimento morboso. Non si è mai impietositi dai personaggi, pur non riuscendo a rimanere insensibili alle loro vicende. L’ironia, che crea un potente diaframma emotivo fra lo spettatore e la storia, è dosata con maestria. Equilibrio e classe, eleganza e raffinatezza, la mano di un grande regista.
Mariella Minna
Recensione n.3
Claude Chabrol, abile cantore dei misfatti dell’alta borghesia, continua la sua opera di sottile denuncia cinematografica. Questa volta, pero’, il risultato non suscita particolare entusiasmo. La storia prevede l’intrecciarsi di due dinastie familiari che da generazioni non riescono a evitare ambigui legami. L’aspetto piu’ interessante del lungometraggio e’ lo stravolgimento dei generi: si apre con un cadavere, vira alla commedia sociale e potrebbe evolversi in un dramma, ma i toni pacati hanno sempre il sopravvento. Si raccontano delitti, amori passionali, tradimenti, possibili incesti, ma lo spettatore e’ sempre testimone di una misura in grado di razionalizzare qualsiasi evento. Il taglio, non certo originale, ben si adatta alla classe sociale rappresentata, dove le pulsioni indossano gli abiti stretti del sorriso a spigoli, e il film scivola leggero nonostante la grevita’ dei fatti (piu’ che altro) suggeriti, ma la pacatezza diventa una sorta di ovatta incapace di racchiudere emozione. Anche la critica sociale arriva tra le parentesi del gia’ visto e gia’ sentito: scheletri nell’armadio, con gli stessi scheletri e lo stesso armadio di una miriade di film piu’ incisivi. Torna alla mente il riuscito “Gosford Park”, dove il delitto era tutt’altro che centrale e lasciava il posto a un’efficace analisi sull’inconciliabilita’ tra aristocrazia e servitu’.
Anche nel film di Altman di concreto non accadeva molto, ma i dettagli, la caratterizzazione dei personaggi e una strepitosa sceneggiatura riuscivano a pungere. Nel film di Chabrol, invece, i personaggi sono tutti artificiosamente anestetizzati e finiscono per essere sovrapponibili. La recitazione sussurrata diventa un’inevitabile conseguenza, all’inizio apprezzabile perche’ ammantata di ironia, poi sempre piu’ forzata e distante, sia dalla concretezza degli eventi narrati che dallo spettatore. Tra i momenti migliori, l’idea di flashback solo sonori e privi di memoria visiva, qualche sottigliezza di scrittura (non sapremo mai chi e’ l’autore dell’infamante volantino) e la decisione di chiudere il film un attimo prima della resa dei conti definitiva, lasciando i personaggi sospesi verso un destino ormai irrimediabilmente segnato. Quanto alla confezione, non brilla per ricercatezza e sconta qualche sciatteria (soprattutto
nell’utilizzo della luce).
Luca Baroncini
Recensione n.4
E’ tempo di elezioni comunali in una piccola città di provincia della Francia. A presentarsi per la sinistra è Anne, una signora di mezza età sposata con François, padrone di una piccolo studio farmaceutico. Entrambi sono al loro secondo matrimonio ed hanno uno un figlio, l’altra una figlia. I loro precedenti coniugi erano fratelli , nipoti di zia Line, un’arzilla vecchietta che abita con loro. Una giorno arriva una lettera che minacciando Anne rinvanga alcuni episodi del passato della famiglia non molto chiari…
Una casa borghese, una delitto, la provincia; ci sono tutti gli ingredienti classici dei film di Chabrol.
Il grande cineasta francese anche questa volta torna a infilare il dito nella piaga della corruzione della famiglia. Ma in questo caso il suo discorso si apre ad una intera comunità cittadina e in certo senso ad un intera nazione. Il fantasma che aleggia nella casa dei protagonisti è infatti quello del collaborazionismo.
La zia così all’apparenza gentile e dolce nasconde in realtà un terribile segreto, un delitto le cui conseguenze nefande ritornano sulla famiglia stessa. Ad essere presente non è solo lo spazio temporale dell’oggi, ma anche quello dell’infanzia di Zia line, che non viene quasi mia visualizzato, ma riemerge attraverso suoni, ricordi che ci riportano alla seconda guerra mondiale. Sulla casa dei Charpin -Vasseur , aleggia un destino tragico che ricorda molto quello della tragedia greca. Difatti il primo pensiero va alla trilogia eschilea, cui la vicenda della famiglia è legata dalla stessa tragica fatalità e dalla presenza della colpa che non si riesce ad espiare. A legarci ancora ulteriormente al mondo greco è il rapporto incestuoso che lega alcuni dei personaggi. Un mondo cupo e tragico che si oppone alla solarità del paesaggio, mai così stupendo in Chabrol.
I ricordi del periodo fascista si collegano al presente. Non a caso la vicenda si ambienta durante le ultime elezioni e si sa che il fantasma Le Pen ha attraversato a lungo la Francia, facendo temere una svolta autoritaria.
Chabrol sembra dirci quindi che il tempo non ha un andamento lineare ma ciclico e se non si è ancora fatta completamente chiarezza sul passato, non bisogna indugiare ancora. Le colpe dei padri ricadono sui figli ed è dubbio se è possibile uscire dal circolo dato che ” Il tempo non esiste, viviamo in un eterno presente”. Rispetto a Grazie per la cioccolata abbiamo quindi una diversa struttura temporale e un diverso riferimento culturale: nel primo caso la linea e il grande dramma settecentesco, nel secondo il cerchio e la tragedia greca. Racine ed Eschilo. Due figure antitetiche, ma che il nostro regista padroneggia con uguale maestria aiutato da interpreti splendide.
Grandissime difatti tutte le attrici del film, soprattutto Susanne Flon di wellsiana memoria.
Mauro Madini