Scheda film
Regia: Francesca Archibugi

Soggetto: tratto dalla pièce teatrale “Le prénom” di Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte
Sceneggiatura: Francesca Archibugi e Francesco Piccolo
Fotografia: Fabio Cianchetti
Montaggio: Esmeralda Calabria
Scenografia: Sandro Vannucci
Musiche: Battista Lena
Italia, 2015 – Commedia – Durata: 94′
Cast: Alessandro Gassmann, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo, Micaela Ramazzotti
Uscita: 22 gennaio 2015
Distribuzione: Lucky Red

A cena di veleni con il film televisivo e naif diretto dalla Archibugi e confezionato dalla “ditta” Virzì
Indovina chi fa outing a cena?
Simona è una starletta televisiva al suo esordio letterario, pronta ad inondare le librerie con i piccanti retroscena dello showbiz narrati ne “Le notti di F”, e sta per dare un figlio a Paolo, immobiliarista con Rolex e BMW annessi, affettuoso, ma anche razzista e snob con la grinta autoironica e compiaciuta del rampollo cinico di un’illustre casata, i Pontecorvo, istituzione nazionale. Betta, insegnante precaria alla medie e sorella di Paolo, in “premenopausa” sin dall’asilo, ansiogena e accondiscendente, è sposata con il professore twittatore incallito e sociopatico Sandro, il “paguro” intruso. Claudio, amico fraterno di Betta e confessore della sue scappatelle e non solo, è un musicista che produce dischi di cover e ascolta da decenni con sagace pazienza il belare del suo mucchio pseudofamiliare. Si ritrovano insieme per una cena e una news imporante, che tra scherzo e verità assesta colpi salati al menage apparentemente rodato.
Sfornata così, tra ginnastica domestica e zuffe verbose, la ricetta de Il nome del figlio, nuovo film da camera anzi da “sala da pranzo” di Francesca Archibugi.

Doppie vite, segreti sottaciuti, insofferenze a pelo d’acqua, febbri che vogliono evacuare da corpi a stento trattenuti nel tepore familiare, tra una mega bottiglia di champagne, un libro citato per caso, una dietrologia antropologico-storica, un Benito di troppo, una crostata di ricotta dimenticata, un’imbarazzante intervista fiume, un elicottero-spia giocattolo e un parto imminente. Questione di ruoli, storici e culturali e personali. Questione di cuori, affamati di semplicità ma abituati al gioco dei mimi.

Una lite domino e nuovi equilibri in famiglia Pontecorvo. Dove professori radical chic incastrati in esistenze fantasmatiche si accapigliano e riconciliano con rampanti agenti del lusso menefreghista italiota. Alla fine l’unico sguardo “asciutto” e sincero, certificato da esibite carte, è quello della (ex) soubrette dagli occhi laminati di verde, Simona, l’immatura esageratamente fantozziana futura mamma, procace e linguisticamente medriocre, che sembra poter invece insegnare a tutti la banalità vanesia dell’esistere. Che sbatte sul muso vizioso anche se amato dei suoi “parenti” acquisiti come lo status tanto difeso quanto osteggiato da ciascuno di loro sia l’mprescindibile culla e tomba in cui nascere, ribellarsi, digerire, scopare, tradire, invecchiare, il piedistallo (s)comodo da cui emettere sentenze, il vestito di cui nessuno di loro sa o vuole spogliarsi senza accettare le conseguenze dell’altrui sguardo, finalmente diretto, sulle contraddizioni e sui desideri pronti a scoppiare, sull’epidermide nuda del Sé.

“Cena tra amici” (“Le prénom”) pièce teatrale di Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte divenuta grazioso ma monotono film nel 2012, per la regia degli stessi autori, è la maschera strutturale del film della Archibugi. Che risulta remake (ulteriormente) isterizzato della pellicola francese. Il nome del figlio, titolo più sottilmente patriarcale e vendibile, vorrebbe convogliare nella sua confezione televisiva e ritornante, con rasoiate di sarcasmo leggero, l’umorismo colto e (tipicamente) nervoso dell’originale d’Oltralpe sulla società alto borghese e suoi eterni intrighi e crucci socio-politico-sessuali, in una commedia a portata di mano che tenta di svolazzare dalla twittermania al razzismo, dalla depressione di coppia all’ipocrisia domestica tra fine anni ’70 e primi 2000.
Come i rugginosi treni che scorrono invisibili sotto la terrazza dell’attico shabby chic dei Pontecorvo, nel quartiere fuligginoso e coatto adibito a “tossici, immigrati e bidelli”, il film della Archibugi arranca, fornendo dai finestrini, sporcati con garbo e rare discese nel trash pecoreccio nostrano, una visione certo inevitabilmente parziale ma troppo schematica di quell’italietta per bene e precarizzata nell’anima che forse poteva ritrarre. Personaggi verosimili e non veri, caricature a tratti divertenti ma non trascinanti, nonostante lo sforzo di Papaleo (Claudio, il ruolo più completo) e Gassman. Un film corale, un prodotto ready for the video, che languisce nei canoni della ripresa televisiva, sciogliendo nei veleni della “cena” pillole di spicologia naif e attualità spicciola q.b., ingabbiando il tutto nello spartito della pièce francese, adattata dalla stessa Archibugi insieme alla mano ferma e onnipresente di Francesco Piccolo, qui sciolto da Virzì (pur sempre innestato nel film come produttore associato).
Squadra di mercato che vince non si cambia. E se la premiata ditta virziniana rastrella a suo modo botteghini e sponsor spalleggiata da mamma Rai, il film da “quattro salti in padella” corretti allo champagne è servito in poche mosse.

C’è bisogno di leggere “Le notti di F”?

Voto: 5 e ½

Sarah Panatta