RECENSIONE N.1

REGIA: Roland EMMERICH
INTERPRETI: Mel Gibson, Heath Ledger, Joely Richardson.
MUSICHE: John Williams

Reduce dal conflitto franco-indiano, il soldato Benjamin Martin (Mel Gibson) decide di dedicarsi ad una tranquilla e agreste vita familiare. Nonostante gli Inglesi abbiano ormai invaso la South Carolina, l’eroe riprenderà le armi soltanto quando vedrà minacciata la vita dei propri figli e, seguendo l’esempio del suo primogenito, si unirà agli ex-coloni ormai cittadini del Nuovo Mondo per affrancarsi dalla dipendenza inglese.

Commenti negativi per il “braveheart” dell’indipendenza americana: il tedesco Emmerich si conferma regista commerciale e di quantità, più che di qualità. Curioso pensare che appartiene, in origine, allo stesso mondo di W.Wenders, e abbia assorbito lo stesso humus culturale. Gli esiti sono incredibilmente opposti: Emmerich fa spesso e volentieri il virtuoso in maniera sfacciata, sfrontata, immediata fino al banale; Wenders ricerca invece la poesia, l’”illuminazione” dentro le immagini, lo sguardo che apre nuovi mondi. Il primo è supportato da trame convenzionali, spesso al limite dell’inverosimile, sorrette da effetti speciali o da scene d’azione; il secondo più che alla trama, ultimamente sembra orientato a una filosofia dell’immagine, a una ricerca del non detto, dell’indefinibile, che sembra interessarlo più degli intrecci (sempre più retoricizzanti). Stridente il confronto con Emmerich, per il quale lo stimolo alla ricerca, alla poesia deve essersi esaurito in gioventù, soppiantato da altri interessi…

Il suo lavoro è retorico e ripetitivo. La storia, la sceneggiatura, i dialoghi, sono un pieno di luoghi comuni, di frasi classiche, di personaggi poco delineati e al limite della macchietta. Il film non è neanche decente dal punto di vista tecnico: non sempre Hollywood spende in modo intelligente i mezzi a sua disposizione. Le battaglie, cardine del film, sono girate in maniera confusa e pasticciata , niente a che vedere con “Il Gladiatore” o “Braveheart”. Mel Gibson è bravo nella parte, ormai per lui consueta, dell’eroe “per caso” e l’azione a tratti avvince: ma la lunghezza e la prosopopea dell’insieme risultano a tratti insopportabili.

Vito Casale

RECENSIONE N.2

Nel bene o nel male il nome del regista dice quasi tutto. Che cosa ci aspettiamo da Kitano se non cacatoni orientali? Che cosa ci aspettiamo da Vanzina se non cacatoni nostrani?
Che aspettarsi quindi da Emmerich (Independence Day, Godzilla) se non cacatoni americani?
Più che Independence Day qui si tratta di Independence War. L’anno e’ il 1776 e all’ex veterano Mel Gibson tranquillo padre di famiglia devono incendiare la casa ed uccidere un figlio affinche’ egli decida che la cosa riguarda anche lui.
Mi aspettavo a dir la verità la citazione di John Wayne “Ora questa guerra ci riguarda…” (Sentieri Selvaggi?) che invece non è arrivata. Mi aspettavo lo spettacolo, arrivato puntuale; mi aspettavo le scenazze strappalacrime imperniate sul “quantovogliobeneallamiafamiglia”.
Mi aspettavo tutto e sia Emmerich che Gibson hanno mantenuto le promesse di una sconvolgente scontatezza sino alla very ultima scena.
Gibson si lancia nella ressa dalle prime scene, tomahawk (quella cosa che chiamate tomawhak, non esiste…) alla mano e fa scempio di nemici
esattamente come Rambo II. I cattivi sono cattiverrimi (pero’ il colonnello dei Dragoni Verdi è veramente bravo nel ruolo), volano moschettate da tutte le parti e un gran numero di palle da cannone. Bruciano case, crepano innocenti, le donne e i bambini piangono un sacco, si scopa poco (niente) e le scene migliori sono all’inizio, poi lo scambio dei prigionieri e alla fine il confronto tra il figlio maggiore di Gibson e il colonnello cattiverrimo. Un grande Tcheki Kario nella parte del francese mandato come osservatore e che invece si combatte tutta la guerra da solo.
Begli effettini, tanti costumi, poco realismo tattico. Tutto molto americano, tutto molto visto. Paragonarlo a Braveheart è ridicolo, ma se non avete niente da fare una sera piovosa, potete anche gustarvelo e scrivere poi una recensione carina come questa.

Guglielmo Pizzinelli