Scheda film
Regia: Alejandro Amenábar
Soggetto e sceneggiatura: Alejandro Amenábar
Fotografia: Daniel Aranyò
Montaggio: Carolina Martinez, Geoff Ashenhurst
Scenografie: Carol Spier
Costumi: Sonia Grande, Minda Johnson
Musiche: Roque Banos
Prodotto da: MOD Entertainment
USA, 2015, Thriller, 106’
Cast: Ethan Hawke, Emma Watson, David Thewlis, Lothaire Bluteau
Uscita: 13 dicembre 2015
Distribuzione: Leone Film Group, ADLER

Il male in persona

L’involuzione di Alejandro Amenábar e del suo cinema fa una nuova tappa in Regression; involuzione che ci auguriamo non faccia parte di un processo a carattere irreversibile. Si tratta di un copione che gli addetti ai lavori, ma anche gli spettatori più attenti, conoscono molto bene, poiché riguarda e ha riguardato tantissimi registi di ieri e di oggi che sono andati via via perdendosi dopo promettenti esordi e indimenticabili exploit (M. Night Shyamalan tanto per citarne uno). La preoccupazione viene dal fatto che, questa sua sesta fatica dietro la macchina da presa, è il secondo passo falso consecutivo dopo Agora. L’infelice peplum lo avevamo frettolosamente archiviato alla voce “peccato di gola”, considerandolo nient’altro che una parentesi negativa in una filmografia ancora povera di titoli, ma particolarmente ricca di pellicole di assoluto valore.
Consapevole forse della caduta rovinosa che lo ha visto protagonista qualche stagione fa, il cineasta cileno ha pensato bene di tornare sui suoi passi, in particolare alle atmosfere e ai toni di Tesis e soprattutto di The Others, per provare così a rialzarsi e dare un nuovo slancio al suo cinema. È con quest’ultimo che Regression, nelle sale nostrane a partire dal 3 dicembre grazie alla partnership distributiva tra ADLER e Leone Film Group, sembra avere più di un’affinità elettiva, a cominciare dal mix di thriller psicologico e horror sovrannaturale che scorre fra le pagine della sceneggiatura originale firmata dallo stesso Amenábar.
Tratto da fatti realmente accaduti, lo script riavvolge le lancette del tempo sino a riportarci nella Minnesota del 1990. Lì il detective Bruce Kenner sta indagando sul caso di una giovane di nome Angela che accusa il padre, tale John Gray, di un crimine terribile. Quando l’uomo, inaspettatamente e senza averne memoria, ammette la sua colpa, il famoso psicologo Dottor Raines viene chiamato per aiutarlo a rivivere i suoi ricordi, ma ciò che verrà scoperto smaschererà un orribile mistero. Baricentro su e intorno al quale storia e personaggi ruotano incessantemente dal primo fotogramma utile è il processo di regressione, lo stesso che offre il titolo al film. Sinossi alla mano è facile intuire le evoluzioni drammaturgiche dell’ennesimo “Vaso di Pandora” pronto, una volta scoperchiato, a riversare sulla platea di turno l’immancabile catena di colpi di scena. Amenábar mescola senza sosta le carte, cercando i modi più svariati per confondere le acque e depistare lo spettatore, ma finisce con il tirare troppo la corda quanto basta per farla spezzare. Quella corda non è altro che l’attenzione del fruitore che va via via scemando a causa di una perdita graduale e copiosa della suspense, elemento imprescindibile per la riuscita di un’opera come Regression. La scrittura e la conseguente messa in quadro si dimostrano incapaci di gestirla dopo averla efficacemente accumulata, diversamente da quanto avvenuto invece anni or sono in The Others, dove alla crescita della suspense corrispondeva un esplosione altrettanto forte sullo schermo. Tale dispersione si verifica soprattutto nei continui passaggi tra dimensione onirica e realtà. Ciò che ne scaturisce è, dunque, soltanto una cervellotica e macchinosa tela da sbrigliare, animata da una manciata di sussulti che si fanno largo a fatica nel racconto. Davvero troppo poco per un regista che proprio su questi elementi ha eretto le solide basi dei suoi film.
Nemmeno il cast a disposizione riesce a venire in soccorso della causa, con un Ethan Hawke monocorde nei panni di Kenner e una Emma Watson che in quelli di Angela funziona a fasi alterne. Il demerito di una simile debacle sta in primis nella bidimensionalità nel disegno dei personaggi, fotocopie sbiadite e standardizzate di figure già transitate sullo schermo in questo tipo di storie. Ciò che traspare è, infatti, una regia più attenta alla confezione che alla direzione degli attori, con la prima che quantomeno offre qualche soluzione visiva degna di nota.

Voto: 5

Francesco Del Grosso